Accettare il proprio corpo

L’importanza del corpo

L’era digitale che caratterizza questo modo governato dai social network ci impone, molto più rispetto che in passato, di prestare attenzione ad un elemento imprescindibile nella nostra vita e nella nostra quotidianità: il nostro corpo. Il corpo è ci accompagna e noi accompagniamo lui: è proprio per questo motivo che è importante prestarvi le giuste cure ed attenzioni.  Un’alimentazione sana, uno stile di vita attivo, delle “coccole” che possiamo concederci (massaggi, scrub, fanghi, trattamenti elasticizzanti e chi più ne ha più ne metta), sono tutte buone abitudini per mantenere un corpo sano e (soprattutto) bello! Ebbene si, purtroppo il fine ultimo di tutte queste attenzioni e cure per moltissime persone è oggi il “bello”. Viene, infatti, considerato più importante sulla scala gerarchica delle priorità rispetto alla salute: apprezzare il proprio corpo dal punto di vista estetico (ma soprattutto far sì che gli altri possano apprezzarlo!) viene prima dell’avere un corpo in salute. Ma, quanto malessere (psichico) può celarsi dietro un corpo apparentemente perfetto? 

 

Il “bello” è relativo

Corpo “bello” e “Salute” non sono sinonimi e non sono indissolubilmente connessi. Perché? In primis: il bello è relativo. Ogni epoca ha il suo concetto di bellezza, nell’epoca odierna complici anche i social network e la nuova “moda” del fitness, corpi belli sono corpi atletici, muscolosi, definiti, senza un filo di grasso, in una parola “perfetti”. Le persone che possono avere per “costituzione” naturale questo tipo di corpo rasentano lo 0% della popolazione mondiale: nessun essere umano, senza una dieta controllata ed un allenamento assiduo può avere il corpo che siamo abituati a vedere degli influencer di instagram e dei social in generale. Oggi in particolar modo, a differenza di quello che qualche personaggio dello spettacolo vorrebbe (maldestramente) farci credere, quella che è considerata la bellezza non può “capitare”, va ricercata e mantenuta, in modo assiduo e costante. Si ha una smodata ed asfissiante ricerca della perfezione corpo.  Perché? A cosa ci serve un corpo perfetto? La società risponde: a tutto! Il messaggio che la stragrande maggioranza della popolazione, specie tra le fasce più giovani, riceve quotidianamente è: il bello ha successo (e il successo nella moderna società narcisistica è la linfa vitale di cui ci nutriamo). 

 

Ad ogni sesso la sua bellezza

Confrontiamo quotidianamente i nostri corpi con l’ideale di bellezza perfetta a cui siamo (sovra)esposti quotidianamente. Come possiamo sentirci al riguardo? La maggior parte delle persone, anche quelle che riescono oggettivamente a raggiungere buoni risultati tramite palestra/sport e alimentazione, si sentono insoddisfatte. C’è sempre quel dettaglio che si può migliorare, quel centimetro di troppo, quel muscolo troppo poco definito. Perché questo ha un impatto molto forte e molto negativo sul nostro benessere psichico? Perché nella società delle apparenze, l’apparenza è ciò che conta, il corpo è il nostro “biglietto da visita” e la bilancia con cui pensiamo il nostro valore. Probabilmente questa visione sembra esagerata in riferimento alle generazioni più adulte, ma, dai 30 anni in giù, più diminuisce l’età più si fa pesante il carico della perfezione estetica.  Questa preoccupazione, nelle generazioni giovani, è abbastanza “democratica”: è importantissima tanto per le ragazze quanto per i ragazzi. L’ideale di bellezza chiaramente si adatta al sesso: nelle donne lo stereotipo di genere della femminilità si abbina a corpi snelli, esili, tonici ma non forzuti, magri e “delicati”; negli uomini lo stereotipo di genere impone virilità quindi corpi muscolosi, definiti, forti. C’è un luogo virtuale, in particolare, in cui l’importanza attribuita al corpo è evidente in tutta la sua forza: le app di dating. Le app hanno lo scopo di mettere in contatto persone interessate a intraprendere relazioni sentimentali e/o sessuali, è quindi, forse, ovvio che mettano in primo piano il corpo. Lo è ancora di più per un gruppo di persone in particolare: gli uomini omosessuali. Perché?

 

L’hegemonic masculinity

I ragazzi omosessuali, in generale, tendono a usare di più le app di dating rispetto ai coetanei eterosessuali e rispetto alle ragazze. Il profilo “tipico” del ragazzo su Grindr (una delle app di dating maggiormente utilizzata dalle persone omosessuali) è un ragazzo atletico, muscoloso, che esibisce il corpo e lo ostenta, facendone di fatti il suo punto di forza e il suo biglietto da visita con altri potenziali partner.  La nostra società, oltre a dare molto peso alle apparenze in modo indiscriminato, fa sì che il corpo, e quindi la sessualità, diventino l’unico strumento di cui possono servirsi molti ragazzi omosessuali che non hanno accettato appieno il proprio orientamento sessuale: la società discriminatoria insinua nel ragazzo un pensiero rifiutante rispetto all’omosessualità e la associa a un’espressione di genere femminile. Una delle possibili conseguenze è quella di mettere in atto dei meccanismi compensatori per accettarsi: essere “più maschio”. Come fare? Proprio con l’ostentazione del corpo e con il servirsene per instaurare relazioni sessuali, per attrarre. È, quindi, grazie alla mascolinità e all’apparenza del corpo perfetto che si riesce a conquistare l’apprezzamento dell’altro e questo è funzionale a compensare il senso di inadeguatezza, forse anche inconsapevole, che si prova a causa del proprio orientamento sessuale (o meglio a causa del fatto che la società discrimina il proprio orientamento sessuale). Questo meccanismo, apparentemente complesso, ha un nome ben preciso: hegemonic masculinity. Prevede che gli uomini rappresentino il proprio essere “maschi” con caratteristiche stereotipiche di forza e virilità, ostentandole per compensare un implicito senso di colpa derivante dall’essere gay. 

Orientamento sessuale:
questione di gusti

I gusti sono gusti

Immaginiamo di trovarci in un caldissimo pomeriggio estivo, insieme al nostro gruppo di amici, ad entrare in una gelateria: trovandoci di fronte al bancone dei gelati sperimentiamo di certo un iniziale momento di confusione e trepidante desiderio di mangiare tutti i gusti di gelato presenti. Alla fine però, riusciamo sempre a scegliere alcuni gusti, alcuni dei nostri amici scelgono sempre gli stessi, altri sperimentano gusti vari, altri ancora hanno avuto il coraggio di scegliere davanti i nostri occhi gusti di gelato a nostro avviso immangiabili (dai, non ditemi che nessuno di voi ha storto il naso di fronte al gelato “Puffo”… ma che è?? Colorante allo stato puro).  Avendo compiuto ognuno la sua scelta, siamo tutti contenti del nostro gelato, ce lo gustiamo felicemente ed è davvero improbabile che il famoso amico che avesse scelto il gusto “puffo” si sia sentito inadeguato per aver preso un gelato “impopolare”. Vi stare chiedendo dove vogliamo arrivare… semplice no? I gusti sono gusti. Non abbiamo il diritto di sindacare sui gusti altrui, né che si tratti di gelato, né che si tratti di abbigliamento, né che si tratti di partner sessuali e sentimentali. L’orientamento sessuale è una questione di gusti!

 

“Dimmi chi ami e ti dirò se puoi prenotare”

Nell’agosto 2019 “Il fatto quotidiano” riporta un fatto di cronaca che vede protagonista un ragazzo di Modena, il quale aveva nei suoi programmi qualcosa di semplicissimo e molto prevedibile dato il periodo: andare in vacanza. Come mai è finito sul giornale? La proprietaria del B&B che ha prenotato tramite una piattaforma online si è rifiutata di accettare la prenotazione dopo aver appreso che il ragazzo sarebbe stato in compagnia… del suo ragazzo.  La domanda che lascia (almeno noi) davvero perplessi è: perché il gestore di un albergo dovrebbe interessarsi della vita intima e privata dei suoi ospiti? Senza entrare nel merito della questione discriminatoria (perché di discriminazione a tutti gli effetti si tratta), il “problema” sta a monte. Prima ancora di addentrarsi in tutte le analisi psicologiche, sociologiche e culturali del caso ognuno di noi può provare a dare una risposta alla domanda “ma perché mai, nel 2019, i gusti sessuali di una persona possono essere oggetto di discussione (e discriminazione) da parte di altre persone?” “Perché non riusciamo a percepire i gusti sessuali e sentimentali proprio come percepiamo i gusti del gelato?”. 

 

“No ma io non sono mica omofobo eh!”

Nonostante finalmente la comunità LGBT+ inizia ad amalgamarsi con la società e a dover combattere battaglie meno dure (seppur ancora necessarie) per chiedere il rispetto dei propri diritti in quanto persone, la cultura è qualcosa di potentissimo e dominante. I valori culturali del nostro contesto di appartenenza ci influenzano in modo davvero forte e necessitano di molto tempo per cambiare in modo profondo. Il cambiamento è sicuramente iniziato, ma finché ci saranno episodi di questo tipo (per non parlare neanche degli episodi di violenza e bullismo) ciascuno di noi deve sentirsi responsabile per non stare veicolando il cambiamento nei limiti delle sue possibilità!  Essere “politically correct” oggi va molto di moda, la maggior parte delle persone soprattutto tra le generazioni più giovani ci tiene a specificare “no ma io non ho niente contro i gay, anzi! Ho un sacco di amici gay”. Ecco, questo non è sufficiente a promuovere il cambiamento di cui si parlava.  Finché si verificheranno episodi di discriminazione, odio, violenza, è un dovere civico e morale, specialmente per i più giovani, innnanzitutto fermarsi a riflettere in prima persona e in secondo luogo stimolare chi ci sta intorno a riflettere insieme a noi. 

 

Cosa non si può più accettare 

Nel 2018 a Budapest, Ungheria, sono stati cancellati 15 spettacoli teatrali all’Opera, in linea con un’aggressiva propaganda anti-gay secondo cui “Billy Elliot” spinge i ragazzi a diventare omosessuali. Senza uscire troppo dal nostro orticello, in Italia è stato stimato un numero di 20.000 persone l’anno che si rivolgono alla gay help line per discriminazioni, violenze e abusi perpetrati nei propri confronti in quanto gay. Un ragazzo di Napoli di 14 anni, sempre nel 2018, è stato affidato ai servizi sociali dopo aver chiesto aiuto a causa del fatto che i suoi genitori, dopo aver appreso del suo orientamento sessuale, lo torturavano gettandogli benzina sulle caviglie a cui poi davano fuoco, provocando ustioni.  Fortunatamente casi così gravi sono isolati e non ancora troppo frequenti, ma finché anche una sola persona non potrà esprimere il proprio orientamento sessuale come si esprime la preferenza per uno o per l’altro gelato, avremo di sicuro molta strada da fare. 

 

Pride: vedere fieramente il mondo a colori

Il simbolo del “Gay Pride”, di cui sicuramente avrete sentito parlare, è una bandiera a colori. Interrogarsi sul significato dei simboli aiuta sempre a capire qualcosa in più riguardo a ciò che ci circonda. La valenza di questo simbolo è duplice: da un lato richiama la bandiera mondiale simbolo della Pace, a indicare “l’innocuità” della comunità LGBT+ che chiede davvero una cosa estremamente “innocente”, ovvero come già detto il rispetto della loro libertà che, almeno in Italia secondo la nostra costituzione, dovrebbe essere garantito ad ogni cittadino e cittadina in quanto persona. Anche i modi di chiedere il rispetto dei diritti sono estremamente pacifici, con manifestazioni non violente e campagne di sensibilizzazione. Il secondo aspetto del simbolo del pride è forse più su libera interpretazione: la bandiera colorata. Di sicuro i vari colori rappresentano la diversità, ai nostri occhi rappresentano la bellissima e vivace diversità che colora il mondo e lo rende un posto unico, meraviglioso, irripetibile (proprio come ogni singolo individuo) in cui ognuno è libero di dare il suo contributo, libero di seguire la propria natura e i propri “gusti”, libero di dare la sua personalissima pennellata di colore. La diversità è colore e la comunità LGBT+ l’ha capito bene, molto prima di tutto il resto del mondo, ed è molto fiera (pride appunto) di condividere questo messaggio con chi ancora non ci è arrivato. 

Le persone LGBT+ nello sport

Quanto sono riconosciute le persone LGBT+ nello sport?

La European Gay Lesbian Sport Federation (EGLSF) è la prima organizzazione internazionale, con sede ad Amsterdam, che a livello europeo promuove all’interno del mondo sportivo la visibilità delle persone LBGT+. Si occupa infatti di coordinare gruppi sportivi e di organizzare eventi a livello continentale come gli Eurogames. Perché esiste un’organizzazione del genere? Il motivo è ovvio: nel mondo dello sport non c’è una presenza accettata e riconosciuta di persone LGBT+. Ciò si nota, ad esempio, dallo scalpore che suscitano i coming out di noti personaggi sportivi. Le testate giornalistiche, in ogni parte del mondo, trattano la notizia del coming out degli sportivi come una notizia sensazionale, che deve necessariamente suscitare un enorme “scandalo”, anche quando gli stessi sportivi la trattano con estrema naturalezza e semplicità. Un esempio? Paola Egonu è una bravissima pallavolista classe ’98 della nazionale italiana che, a seguito di una sconfitta nel campionato mondiale 2018 ad un giornalista che le chiedeva “Come hai affrontato la delusione della sconfitta?” ha risposto con tutta la naturalezza del caso: “Ho chiamato la mia ragazza che mi ha consolata”. Il giornale non ha mancato di gestire la notizia come se fosse una rivelazione shock. Ma per quale motivo suscita così tanto scalpore tutt’oggi, in Italia in particolar modo, che gli sportivi facciano coming out?

 

LGBT+ nel mondo del calcio: un connubio possibile?

In alcuni sport più che in altri si nota una forte resistenza nei confronti della comunità LGBT+. Prendiamo ad esempio lo sport più diffuso e seguito a livello mondiale ma specialmente italiano: il calcio. Riusciamo a pensare ad un calciatore italiano gay? Probabilmente no. È plausibile pensare che, su circa 1000 uomini calciatori agonisti nel nostro paese (calcolato facilmente con una semplice moltiplicazione di numero di squadre di serie A e B, 40 circa, per numero di giocatori a squadra, 25 circa), nessuno di questi sia gay, trans, bisessuale o asessuale? Non è facile dare una spiegazione a questo fenomeno, però il calciatore “tipo” nell’immaginario collettivo incarna lo stereotipo di uomo con le caratteristiche di virilità e forza, caratteristiche opposte allo stereotipo di omosessuale (effeminatezza e fragilità). Anche la questione dello spogliatoio citata dal calciatore non è da sottovalutare: in un ambiente di quel tipo gli uomini scherzano molto con la sessualità, denigrando di fatto la sessualità tra uomini; è comprensibile quanto una persona omosessuale possa sentirsi scoraggiata al coming out e non voglia esporsi al rischio di venire emarginata dalla sua squadra. La coesione tra i compagni di squadra, infatti, è cruciale per avere delle alte performance. Insomma, il mondo del calcio, non è difficile dirlo, è più omofobo rispetto ad altri ambiti sportivi. Anzi, specifichiamo: il mondo del calcio maschile. Nel mondo del calcio femminile, infatti, le calciatrici omosessuali non fanno scalpore, sono molte e le persone lo ritengono quasi ovvio: “se gioca a calcio ovvio che sia lesbica” (usato purtroppo spesso in senso denigratorio). Si tratta, in realtà, di uno stereotipo: così come il calciatore è “sicuramente” eterosessuale, la calciatrice è “sicuramente” lesbica. Non è certamente sempre così. Questi stereotipi confermano quanto detto appena prima: il calcio nell’immaginario comune è (purtroppo) sport da uomo, da “uomo vero”. 

 

Lo sport non è solo una questione di fisico

Uscendo dallo specifico ambito del mondo calcistico, non abbiamo di fatto trovato risposta alla domanda “Perché il coming out degli sportivi suscita, in genere, scalpore?”. Infatti, si è parlato del perché nel mondo del calcio il coming out non esista proprio, ma questo non è generalizzabile ad altri sport. Sono molti a livello mondiale gli sportivi che hanno dichiarato la propria omosessualità o il proprio transgenderismo (più a livello mondiale che a livello italiano nello specifico): pallavolo, pallamano, basket, tennis, atletica, nuoto, tuffi, ginnastica artistica, etc. 

La diversità LGBT in ambito sportivo è considerata ricchezza? Valore? Forse, non proprio. Se nel mondo lavorativo negli ultimi anni le politiche di diversity management sono sempre più orientate a valorizzare la diversità delle persone è perché ci si è resi conto che, in quell’ambito, la diversità è ricchezza. Nel lavoro, infatti, la persona che sta dietro il ruolo è cruciale per ottenere un’alta performance. Nello sport vale lo stesso? C’è in realtà l’opinione, molto diffusa, che a prescindere dallo sport a cui ci si riferisce ciò che sia importante è la prestazione fisica di per sé. Tutti gli sportivi sanno, però, che la componente mentale e psicologica è cruciale in qualunque sport, sia individuale che di squadra. Perché allora non si considera che nello sport, proprio come nel lavoro, la diversità può essere ricchezza? 

Questo potrebbe essere, infatti, sereno ed onesto con sé stesso; di conseguenza avrà la mente libera da altre preoccupazioni per potersi concentrare sulla sua performance, in altre parole potrà dare il massimo. Purtroppo, ancora oggi la diversità LGBT nello sport non solo non è valorizzata, è non considerata, come se non esistesse. È per questo motivo che nel momento in cui si presenta i giornali (e le persone di conseguenza) trattano questo elemento come qualcosa che “fa notizia”. Ci sono, però, alcune realtà milanesi che tengono particolarmente alla rappresentazione delle persone LGBT+ nello sport, come Gate Volley Milano, Rainbowling Milano e Pride Sport Milano (propone pallacanestro, yoga, ciclismo e nuoto), in cui potrete trovare riconoscimento e…divertimento!

Disforia di genere

Chiamatemi Lili

Copenaghen, anni 20 del secolo scorso. Una coppia sposata di artisti, Einar e Gerda Wegener, vede sconvolti i propri equilibri quando Einar, inizia a vestirsi da donna traendone un enorme soddisfazione e benessere psicologico. Inizialmente la moglie è sconvolta da questa “novità” del marito, rifiutandola, ma nel momento in cui si rende conto che è un bisogno, una necessità per la persona con cui condivide la vita, accompagna Einar in un difficilissimo percorso che lo porta a diventare Lili Elbe. Nel 1930 il percorso ha il suo culmine con l’intervento chirurgico con cui Einar smette di essere biologicamente uomo e tramite la rimozione dei testicoli inizia la sua definitiva transizione in donna. Considerata l’epoca storica non vi stupirà sapere che il caso attirò enormemente l’attenzione pubblica, tanto da diventare oggetto di romanzi e film fino ai giorni nostri. Vi suonava familiare questa storia, non è vero? Molto probabilmente avrete visto o sentito parlare del film “The Danish girl”, nelle sale Italiane nel 2016, che con l’interpretazione magistrale di Eddie Redmayne racconta questa vicenda realmente accaduta che possiamo a tutti gli effetti definire storica.  L’evento storico è, chiaramente, il primo intervento chirurgico di cambio sesso, la rimozione dei testicoli. Lili ebbe però “fretta” di diventare definitivamente donna e si sottopose dopo poco ad una vaginoplastica che le fu fatale. Sappiamo che le etichette non possono riassumere la complessità dell’essere umano, ma quando si ha molta confusione riguardo a degli argomenti ancora molto poco conosciuti possono essere utili a fare chiarezza…quindi: sapreste definire il problema di Einar/Lili, dargli un nome? Siamo sicuri che moltissimi definirebbero Lili un travestito (fino a prima dell’intervento), altri forse omosessuale, molti probabilmente transessuale. Chi avrebbe ragione?

 

Disforia di genere

Una persona che si sottopone a un intervento chirurgico, più varie cure e procedure ormonali, al fine di cambiare sesso è una persona transessuale. È bene specificare che non tutte le persone transessuali sentono la necessità di sottoporsi all’intervento di transizione, modificando i propri genitali, anzi! Moltissimi si identificano con il sesso opposto a quello biologico di appartenenza ma non si sottopongono mai all’intervento. Ciò dovrebbe farci riflettere molto: siamo abituati nella nostra società ad associare automaticamente ed inevitabilmente il sesso biologico con l’identità di genere. Il sesso biologico è quello che ci viene assegnato alla nascita sulla base del nostro corpo e in particolare dei nostri genitali. L’identità di genere è il sesso con cui la persona si identifica, in cui si riconosce. Nel momento in cui una persona nasce con un determinato sesso biologico (es maschio) ma si identifica con il sesso opposto (quindi femmina) si ha un disturbo psicologico ben preciso: la disforia di genere. Essendo un disturbo comporta chiaramente un disagio, disagio così intenso che porta addirittura a sottoporsi a un intervento molto doloroso e sicuramente non esente da rischi, oltre che a cure ormonali molto pesanti per il corpo, per il cambio di sesso. È il caso di Lili, la Danish Girl che trova il coraggio di esprimere liberamente chi è solo in età adulta. La disforia di genere però non “arriva” da un momento all’altro, come può arrivare una depressione: a differenza di moltissimi altri disturbi che possono manifestarsi in qualunque momento della vita, l’insorgenza è estremamente precoce, si ha quindi già da bambini. Chiaramente da piccoli non si ha ancora una consapevolezza tale da esperire un intenso disagio, requisito indispensabile per diagnosticare il disturbo, ma molto presto i bambini sono esposti ai tradizionali ruoli di genere, che abbinano determinate caratteristiche al maschile e altre al femminile. Un bambino quindi capisce molto presto cosa la società si aspetta da lui, attribuendo il ruolo di genere sulla base del sesso biologico ma senza minimamente considerare l’identità di genere. È così che una persona, anche se in età molto precoce, vive un disagio intenso dato dalla discrepanza tra richieste e aspettative della società, quello che il suo corpo gli impone e quello che sente dentro di sé, nella mente e nel cuore. 

 

L’apparenza inganna… ma a volte lo dimentichiamo

“Non giudicare un libro dalla copertina”, “l’apparenza inganna”. Quanta verità si cela a volte nei banali detti popolari. Sappiamo per esperienza personale che l’esterno non sempre corrisponde all’interno, che ciò che noi vediamo può ingannarci. Pensiamo banalmente di andare a comprare la frutta: sulla base di cosa la scegliamo? Quella “più bella”, ovvio. Per decidere quali mele comprare sicuramente ci orienteremo verso quelle più rosse, più grandi, senza ammaccature. Quante volte vi è capitato di aprire queste mele perfette fuori e trovarci il vermicello dentro? O che non sapessero proprio di nulla perché piene di pesticidi e sostanze chimiche varie? Ma d’altronde si sa…l’apparenza inganna! Come mai allora sembriamo dimenticarlo quando ci arroghiamo il diritto di giudicare una persona e il suo orientamento sessuale e soprattutto identità di genere basandoci su ciò che vediamo? Perché nel vedere un bambino in atteggiamenti “femminili” pensiamo subito che da grande sarà gay e non ci sfiora nemmeno per un attimo che la sua identità di genere possa essere diversa dal sesso biologico? Perché valutiamo solo ciò che possiamo vedere, il sesso biologico, e non ciò che non possiamo, l’identità di genere? Siamo, purtroppo, ancora enormemente influenzati dagli stereotipi sociali di genere che hanno dominato per secoli, ma che (concedeteci l’eufemismo) iniziano a puzzare di vecchio (o puzzare di mela marcia). Come vedrete però siamo in vena di porvi domande a cui non possiamo darvi ancora risposte ben precise, eccone un’altra: perché, ci stupiamo molto di più a vedere un bambino in atteggiamenti femminili e non una bambina in atteggiamenti maschili? In ogni famiglia, classe delle scuole elementari, squadra di nuoto, c’è quasi sempre la bambina che è denominata da tutti “un maschiaccio”. È comune, ma è per questo che non ci stupiamo? Assolutamente no. La nostra ipotesi è che per la società sia più accettabile che una donna aspiri a essere come un uomo piuttosto che il contrario…ah il sessismo…che brutta erbaccia difficile da estirpare! Ma questa è un’altra storia, coinvolta però indubbiamente nella disforia di genere.  

 

Lasciatemi liber* di essere chi sono

La disforia di genere è, quindi, un disturbo determinato dalla marcata incongruenza percepita tra il genere biologico assegnato alla nascita e quello soggettivamente esperito. Si ha un forte desiderio di appartenere al sesso opposto che si manifesta specie nei bambini con una insistenza nel volersi atteggiare e vestire come le persone del sesso opposto. La sofferenza esperita è notevole. Da cosa deriva questa sofferenza? Sicuramente dall’impotenza, rabbia e frustrazione che una persona può sperimentare a causa del fatto che è nata “in un corpo sbagliato”. Siamo sicuri che sia tutto qui? Vorremmo raccontarvi la storia raccontata da fanpage.it (link al video in bibliografia) di Lori, bambina che quando viveva in Italia era scritta sul registro di classe e all’anagrafe con il nome di Lorenzo. La mamma di Lori non ha mai ostacolato la vera “natura” di sua figlia, assecondando il suo bisogno e desiderio di essere una femmina. Lori e la mamma vivono adesso a Valencia, dove il clima culturale nei confronti della comunità LGBT è molto più di apertura rispetto che in Italia, quindi in classe le amichette di Lori non si sono stupite dal sapere che una volta era un maschio, grazie anche alle spiegazioni prive di stereotipi che hanno saputo dare i loro genitori. Lori è una bambina transgender, non ha subito alcun intervento di cambio sesso (d’altronde è troppo piccola, forse lo farà in futuro, forse no) ma questo non deve interessarci; ciò che davvero ci interessa è che Lori è una bambina felice. Non soffre per essere nata biologicamente maschio, si comporta come si sente, è libera di essere ciò che si sente di essere (grazie alla famiglia e alla società). Lori potrebbe rientrare nella categoria di disforia di genere? Secondo i criteri diagnostici, le mere etichette forse si; secondo il buon senso che ogni psicologo deve avere no, Lori non soffre, non ha un problema. È con l’ultima domanda quindi, che vogliamo lasciarvi a pensare: certo, le etichette a volte chiariscono ciò che non conosciamo (esempio distinzione tra sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, ruolo di genere) ma non credete che, a volte, confondono e rendono complesse situazioni più semplici di ciò che immaginiamo?

Cross dressing

Siamo certi che esistano solo due sessi?

Siete mai stati in un campo estivo? Molto spesso si svolgono delle attività ricreative per creare un senso di condivisione e comunalità tra i ragazzi e le ragazze che vi partecipano. Non è infrequente che in queste attività rientrino giochi di squadra e gare “insoliti” che divertono molto chi vi partecipa. Un esempio nella nostra esperienza, diretta e indiretta, è un gioco in cui si dividono le squadre per sesso e si imposta una “sfilata” particolare: i maschi devono sfilare vestiti da femmine mentre le femmine vestite da maschi. Chi convincerà maggiormente i giudici, cioè i responsabili del campo estivo, del proprio travestimento vincerà la gara. Indossare letteralmente i panni del sesso opposto ha un nome ben preciso: cross-dressing. Questa terminologia si basa su due presupposti indispensabili: considerare il sesso come dicotomico, maschi e femmine; considerare l’abbigliamento come distinguibile in abiti che sono prerogativa del genere maschile e altri prerogativa del genere femminile. Analizziamoli entrambi: il primo sembra assolutamente scontato alla maggior parte delle persone che ritengono ovvio che esistano due soli sessi e due soli generi di appartenenza. In tempi recenti però, grazie all’apertura mentale a ciò che appare inconsueto anche nel campo della sessualità e di tutte le sue componenti, è sempre più conosciuta e diffusa l’idea di identità di genere come un continuum, una sorta di scala che va dal polo maschile a quello femminile ma che ha in mezzo molti livelli intermedi. È infatti sempre più conosciuta la dicitura “gender fluid” per indicare quelle persone che si muovono nel continuum, assumendo un’identità prevalentemente femminile, ad esempio, in alcuni momenti della propria vita, e prevalentemente maschile in altri. Alcune persone assumono uno di quei punti intermedi del continuum in modo stabile, sentendosi nel corso della loro vita per una certa “quota” femmine e per un’altra “quota” maschi; altre ancora si collocano esattamente a metà sentendosi egualmente femmine o maschi, o nessuno dei due. Insomma le possibilità sono infinite. Ma perché stiamo parlando dell’identità di genere? Ah già, perché nella nostra cultura diamo per scontato che sia dicotomica, quando in realtà non lo è. Detto ciò chiariamo da subito un fatto cruciale: non è necessario essere in un punto intermedio di questo continuum per praticare il cross-dressing! Persone che si sentono totalmente maschi o totalmente femmine possono avere l’abitudine di indossare abiti che culturalmente appartengono al sesso opposto. 

 

Quella volta che ho indossato i tacchi di mamma

Il secondo presupposto del cross-dressing, oltre la concezione binaria di genere, è che ci sia un abbigliamento femminile e uno maschile. Questo è ovviamente un prodotto culturale. Resteremmo allibiti dal vedere arrivare in ufficio il nostro capo, uomo, con un tacco 13. Il fatto che sia un prodotto culturale è dimostrabile tramite “l’innocenza” dei bambini: spessissimo i bambini piccoli, sia maschi che femmine, ancora relativamente immuni alle convenzioni culturali, giocano con gli abiti dei genitori in modo indiscriminato: indossano la cravatta del papà insieme al bracciale di perle della mamma e i suoi tacchi. Un bambino può giocare a indossare tutti gli abiti della madre poiché ammirandola vorrebbe essere proprio come lei, non può ancora capire che sta giocando a “travestirsi”. Questo comportamento dei bambini suscita spesso l’ilarità e il divertimento dei genitori, in modo particolare quando un bambino maschio indossa i vestiti della mamma. Anche questo è uno spunto interessante di riflessione: come dicevamo saremmo increduli a veder indossare un uomo dei tacchi alti, ma non lo siamo se una donna indossa una cravatta (certo adattata a “caratteristiche femminili”) un completo, una camicia. Come mai?

 

Coco Chanel: la donna che permise alle donne di vestirsi da uomo

Il mondo della moda detta le leggi di ciò che è accettabile nel campo dell’abbigliamento e di ciò che non lo è. Oggi non ci stupiamo quando le donne indossano abiti che sono sempre stati considerati prevalentemente maschili, un esempio tipico è il completo. Per la prima volta all’inizio del ‘900 una donna che ha fatto la storia del mondo della moda ha riscritto le regole dell’abbigliamento diviso per genere: Coco Chanel ha creato il primo modello di pantaloni da donna nei ruggenti anni ’20 e poco dopo il primo tailleur da donna, negli anni ’30. Da allora l’abbigliamento “maschile” è stato sdoganato per le donne che oggi lo utilizzano frequentemente. Questa è sicuramente una conquista delle lotte femministe per la parità di genere: finalmente le donne si sentono libere di indossare indumenti più comodi, pratici, sentendosi al pari degli uomini ad esempio nel posto di lavoro. Che le donne utilizzino abiti maschili è assolutamente comune, “normale”, accettato: è anche per questo motivo che il cross-dressing suscita molto più scalpore quando sono gli uomini a praticarlo. È evidente che il motivo sia culturale per i motivi appena descritti, aggiungiamo inoltre un elemento un po’ provocatorio: la società accetta molto più facilmente che una donna aspiri a somigliare a un uomo, ad ottenere cose che lui ha sempre avuto, piuttosto che il contrario. Va bene che una donna voglia essere come un uomo, ma il contrario assolutamente no! Forse ciò potrebbe rientrare in una mentalità sessista e patriarcale che è davvero dura a morire in tutti noi.  

 

Che confusione!

Torniamo al cross-dressing: la pratica di indossare, abitualmente o occasionalmente, abiti culturalmente attribuiti al genere opposto a quello di appartenenza. È abbastanza probabile che ciascuno di noi abbia praticato cross-dressing almeno una volta nella sua vita, da piccolo in modo inconsapevole, a un campo estivo, durante le recite scolastiche. Per la categoria degli attori è ovviamente spesso inevitabile dover praticare cross-dressing, quando si deve interpretare un ruolo del sesso opposto. A proposito di intrattenimento, si ha una forma particolare di spettacolo, quella delle drag-queen e dei drag-king: persone che si travestono in modo molto vistoso ed eccessivo con abiti del sesso opposto per esibirsi in numeri musicali di canto e/o danza. È purtroppo molta diffusa una credenza erronea per cui le drag queen (parliamo principalmente di loro per questioni di diffusione) sono transessuali, ovvero vorrebbero appartenere al sesso opposto perché si travestono da donne. Questo potrebbe essere vero ma non è assolutamente inevitabile: non tutte le drag queen sono transessuali. Si ha spesso davvero molta confusione riguardo ai termini transessualismo, drag queen, cross-dressing e travestitismo. Si ha una sorta di tendenza indiscriminante a considerarli tutti come sovrapponibili a cui, purtroppo, si abbina una tendenza discriminatoria e patologizzante: per la maggior parte delle persone, uomini che praticano cross dressing quindi si vestono con abiti femminili, le drag queen che si esibiscono in abiti femminili pur essendo uomini, le persone transessuali che pur essendo uomini si percepiscono donne nella loro identità di genere e infine i così detti “travestiti” (che in realtà sono persone con un disturbo parafilico da travestitismo) sono tutti un’unica cosa; in più si ha la credenza (assolutamente erronea) che siano inevitabilmente omosessuali.

 

Occhio a non patologizzare

Si ha la tendenza a sovrapporre il crossdressing al travestitismo, alla transessualità e all’omosessualità. Andiamo per ordine. Innanzitutto escludiamo l’omosessualità che riguarda l’orientamento sessuale, da chi si è attratti sessualmente; questo non ha a che fare con l’identità di genere che percepiamo di avere. L’identità di genere è coinvolta nella transessualità che si sperimenta nel momento in cui il sesso biologico con cui si nasce non corrisponde all’identità di genere, chi ci sentiamo di essere. Restano cross-dressing e travestitismo. In effetti non è immediata da individuare la differenza: abbiamo fin ora detto che le persone che praticano cross-dressing sono persone che indossano abiti del sesso opposto quindi in effetti si travestono. Per travestitismo allora cosa si intende? In realtà è lo stesso comportamento ma in un’ottica patologica: sono persone che non riescono a fare a meno di trasvestirsi. In più la differenza cruciale riguarda il piano sessuale: le persone che praticano cross-dressing non lo praticano perché ciò gli provoca un’eccitazione sessuale, le persone con un disturbo da travestitismo invece si. Il disturbo infatti rientra i disturbi parafilici: disturbi per cui una persona riesce a ottenere eccitazione e godimento sessuale in modo vincolato a un oggetto, una parte del corpo o un’attività specifica (tra cui il travestirsi). Questa “selettività” nella possibilità di eccitarsi determina un disagio per la persona che ne soffre (qui la differenza tra disturbo parafilico e parafilia, spesso confusi: la parafilia non è patologica in quanto non comporta per la persona che la sperimenta un disagio e una sofferenza). L’ulteriore conferma del fatto che disturbo da travestitismo e cross dressing siano comportamenti molto diversi, il primo patologico, il secondo no, deriva da studi scientifici (Långström, Zucker, 2005): in un campione svedese esaminato nel 2005 il cross-dressing, praticato secondo gli autori principalmente dagli uomini, era correlato a una buona soddisfazione di vita (potremmo ipotizzare che il motivo sia che si sentono più liberi di essere come vogliono); molti cross-dresser inoltre riportavano posizioni socio-economiche abbastanza elevate; l’87% riferiva un orientamento eterosessuale difatti moltissimi erano sposati con figli. Tra queste persone svedesi che praticavano cross-dressing pochissime riportavano eccitazione sessuale nel farlo e gli autori classificano questa categoria di individui come persone con un disturbo parafilico.

Insomma, la letteratura, l’esperienza personale, la storia se vogliamo, ci dice che indossare i panni del sesso opposto non è assolutamente un comportamento patologico; se questo è assolutamente condiviso riguardo alle donne, non lo è oggi a proposito degli uomini. Avremmo bisogno di una nuova Coco Chanel che “permetta” agli uomini di vestirsi da donne. 

Come in moltissimi ambiti che coinvolgono i ruoli di genere, è la cultura a dover cambiare, ci vuole pazienza ma anche tenacia, del resto ce lo insegna anche la Disney: se Mulan non si fosse vestita da uomo, probabilmente gli Unni avrebbero invaso la Cina! 

Terapeuta gay frendly

Chi è Gay Friendly?

Con il termine gay friendly si intendono tutte quelle persone, luoghi, associazioni, che accettano e contribuiscono alla valorizzazione della comunità LGBT+, quindi che sono “amichevoli” e aperti nei confronti di questa comunità. Potremmo dire che è gay friendly chi prova simpatia per la comunità LGBT!  Sebbene la società stia facendo grandi progressi nel percorso di inclusione della comunità LGBT, è indubbio che questa sia considerata una “minoranza sociale”: il termine si riferisce semplicemente alla quantità, quindi al fatto che al suddetto gruppo non appartiene la maggioranza della popolazione in un dato momento storico. Gay friendly si riferisce, dicevamo, a persone: molte figure socialmente esposte di spettacolo o politica, come Lady Gaga o Barack Obama, si sono schierate a supporto della comunità LGBT e delle loro battaglie, la prima ha fondato l’associazione “Born this way foundation” a favore dei ragazzi e ragazze LGBT; luoghi: quartieri di molte città in cui si trovano bar, locali, librerie legati alla cultura gay tra cui Soho a Londra, Chueca a Madrid, Via San Giovanni in Laterano a Roma, etc.; associazioni: la prima citata di Lady Gaga, chiaramente Arcigay, Arcilesbica etc., ma anche moltissime aziende importanti che si sono schierate a favore delle lotte LGBT devolvendo in molti casi anche grossi finanziamenti ad alcune campagne, ad esempio Apple, American Express, Disney. È importante specificare come essere gay friendly non voglia dire soltanto “non essere omofobi” quindi non avere pregiudizi: l’inclusione e l’accoglienza vanno ben oltre, significa abbracciare una causa in modo disinteressato, senza secondi fini ed esclusivamente per la “simpatia” che si prova. Simpatia infatti in greco significa “sentire con”, essere partecipe di ciò che sente l’altro… significa capirlo, condividere la sua sofferenza o felicità.

Psicologi e psicoterapeuti Gay friendly

Purtroppo ancora oggi molti psicologi nelle loro attività professionali trascurano l’importanza delle condizioni particolari in cui cresce e si sviluppa un individuo omosessuale o con un’identità di genere fluida. Le minoranze sono sottoposte al “minority stress”: le persone omosessuali e con un’identità di genere non conforme al sesso biologico sperimentano in modo quasi inevitabile uno stress legato a pregiudizi e stereotipi a cui sono sottoposti. Questo stress può essere gestibile in modo autonomo dalla persona, o meno. Nel secondo caso l’esito più negativo è la cronicizzazione che potrebbe portare ad una sofferenza più conclamata. Ciò dipende da molti fattori tra cui: la resilienza individuale, il supporto esterno di amici e familiari, avere modelli di riferimento a cui ispirarsi, etc.
La comunità gay da questo punto di vista dovrebbe ricevere, a nostro avviso, un’attenzione particolare da parte dei professionisti del benessere mentale, in quanto spesso chi appartiene a questo gruppo sociale non riceve un supporto da amici e familiari, sentendosi isolato; in più essendo una comunità relativamente “giovane” chi vi appartiene non ha molti modelli a cui ispirarsi. Potremmo dire che, almeno per il momento, chi appartiene alla comunità LGBT trova sostegno prevalentemente nel suo in-group cioè nella comunità stessa, e meno all’esterno. Nel momento in cui una persona che appartiene a questo gruppo si rivolge a noi psicologi e psicoterapeuti crediamo che esprimere la propria “amicizia” ovvero supporto svincolato da pregiudizi e simpatia di cui si parlava prima, verso persone che vivono la loro appartenenza a questa minoranza in modo negativo, sia fondamentale. Sì, stiamo proprio dicendo che, secondo noi, tutti i terapeuti o psicologi che lavorano con persone gay, lesbiche, transgender, cisgender, etc., dovrebbero essere gay friendly!… O quantomeno avere la capacità di riconoscere di non esserlo e in questo caso inviare ad altri colleghi quei casi su cui non hanno molti strumenti per agire. 

Come capisco se il mio terapeuta è Gay Friendly?

Se appartieni alla comunità LGBT e sei entrato in terapia (o hai intenzione di farlo), forse ti sarai chiesto se il tuo terapeuta è effettivamente “quello giusto” per te. Appartenere a una minoranza pone spesso nella spiacevole condizione della diffidenza: si è ormai talmente abituati a sentirsi incompresi e discriminati che le aspettative sugli altri sono negative. Innanzitutto la prima e più banale osservazione che puoi fare se vuoi essere sicuro che il tuo terapeuta non abbia pregiudizi è riguardo alle tue sensazioni: fidati del tuo istinto! Ti senti a tuo agio? Probabilmente il terapeuta sta efficacemente esprimendo la sua “simpatia” (nel senso in cui l’abbiamo intesa prima, non nel senso comune).  Un altro aspetto che puoi attenzionare è la sensibilità o al contrario l’indifferenza nei confronti del fatto che tu effettivamente appartenga ad una minoranza: secondo noi la parola chiave tra queste due condizioni è equilibrio! Un terapeuta che è eccessivamente sensibile alle tematiche LGBT rischia di farsi coinvolgere troppo con pazienti con cui entra troppo in empatia (e non solo in simpatia), perde l’obiettività che caratterizza la nostra professione e rischia di amplificare i sentimenti del paziente esternando i propri; al contrario un terapeuta che si mostra indifferente al fatto che tu appartenga ad una minoranza non sta considerando il il minority stress di cui si parlava in precedenza. Spesso l’atteggiamento di chi in generale non vuole mostrarsi omofobo, guidato da stereotipi e pregiudizi, è quello dell’annullare e non tenere in considerazione le differenze tra chi appartiene alla comunità LGBT e chi invece no, tra omosessuali ed etero… si pensa di essere “politically correct”, ma in terapia questo può essere altamente controproducente perché si va ad escludere un pezzo molto importante dell’identità del paziente e della sua storia. In terzo luogo puoi informarti facilmente su internet accedendo al curriculum vitae del tuo terapeuta se ha una formazione specifica in tematiche LGBT: nella nostra professione tenerci costantemente aggiornati è necessario, oltre che doveroso come ci ricorda il codice deontologico (articolo 5).  Infine l’ultimo consiglio che possiamo darti riguarda il prestare attenzione alla terminologia che usa il tuo terapeuta: conoscere il significato e utilizzare termini come “coming out”, “outing” la differenza tra transgender e cisgender indica di sicuro non solo un interesse ma anche una preparazione approfondita. Nel rispetto del paziente inoltre i terapeuti gay friendly sono molto attenti a non utilizzare termini e concetti eteronormativi (di chi ritiene che l’eterosessualità sia l’unico orientamento “normale”) che, ad esempio, danno per scontato l’orientamento sessuale dell’interlocutore: se ti chiede “hai un partner?” piuttosto che “hai una ragazza?” molto probabilmente hai trovato un terapeuta gay friendly!

Quando il terapeuta non è gay friendly

Sottolineavamo poco fa l’importanza, a nostro avviso, che un terapeuta sia gay friendly se decide di seguire persone che appartengono alla comunità LGBT, questo non solo nei casi in cui il problema che portano è legato al loro orientamento sessuale o alla loro identità di genere, ma anche nei casi in cui una persona gay, lesbica, trans, etc. semplicemente venga in terapia per altri problemi, qualunque essi siano. Avere degli stereotipi è comunissimo tra tutti, anche tra i terapeuti… è anche per questo che prima di iniziare a lavorare è bene sottoporsi ad un percorso di terapia personale che evidenzi e ci aiuti a superare i nostri “limiti”. I terapeuti infatti sono persone prima che professionisti, e come tutti possono avere delle difficoltà toccando alcuni argomenti in particolare. Saperlo riconoscere è la cosa fondamentale e, nel caso in cui siano così radicati in noi da non riuscire ad accantonarli, è una responsabilità morale inviare i pazienti ad altri colleghi. Non si vuole con questo discorso “condannare” chiunque non sia gay friendly, bollandolo come “omofobo”… il messaggio che vorremmo far passare è che essendo una minoranza, come dicevamo, con bisogni specifici, necessita di professionisti con una formazione specifica e un aggiornamento costante su questo campo; anche qualora il problema portato non sia attinente a temi LGBT avere degli stereotipi può influenzare negativamente il percorso terapeutico. Come mai? Il motivo è che si andrebbe a intaccare una delle chiavi fondamentali in terapia, quella che viene definita alleanza terapeutica: il feeling che si viene a creare tra paziente e terapeuta che pone le basi per fiducia e rispetto reciproci, che portano il percorso terapeutico ad essere veramente efficace.
Il paziente e lo psicologo hanno infatti degli obiettivi comuni da raggiungere insieme, collaborando in modo produttivo e propositivo da ambi i lati. Ciò che permette di lavorare insieme al raggiungimento di questi obiettivi è proprio la fiducia l’uno nell’altro, il rispetto per i sentimenti e per ciò che si investe nel percorso terapeutico da entrambe le parti e in generale un sentimento di condivisione e di empatia. Qualunque elemento possa interferire con l’alleanza è nocivo alla terapia e va escluso: se ad esempio un terapeuta avesse dei pregiudizi nei confronti delle persone omosessuali, potrebbe automaticamente ricondurre tutti i problemi che la persona porta in terapia (es un disturbo d’ansia) all’orientamento sessuale, ad ipotetiche problematiche infantili nell’elaborazione del processo che ha portato il paziente a non essere eterosessuale (orientamento “normativo” secondo chi è guidato da pregiudizi). In aggiunta è importante sapere che, purtroppo, ancora oggi esistono terapeuti che credono nelle così dette “terapie riparative” o di conversione, tese appunto a convertire l’orientamento sessuale di una persona. Quello che noi crediamo è che l’obiettivo delle terapie sia certamente un cambiamento, ma un cambiamento del benessere della persona, non della persona stessa. Ci sentiamo di diffidare da e condanniamo qualunque tipo di terapia o intervento che abbia come proposito di cambiare nel profondo una persona, perché parte dal presupposto che ci sia qualcosa di sbagliato da correggere, qualcosa di “non normale”. Ma ci siamo mai chiesti davvero cosa sia la normalità? Il termine in statistica indica semplicemente la tendenza prevalente di una popolazione, cioè il fatto che una quota abbastanza ampia del gruppo considerato abbia una caratteristica che la minoranza non ha. Riteniamo che sia molto riduttivo oltre che fuorviante applicare questo modo di ragionare alla complessità umana: non è un caso che agli studenti di psicologia una delle prime cose che viene insegnata è che “non esiste la normalità, contrapposta alla patologia”. L’essere umano è un insieme di sfumature molto complesse, sovrapposte e intrecciate, impossibili da incasellare ed etichettare.  Quegli interventi psicologici (come la terapia riparativa) che mirano a “normalizzare” la persona, non rientrano nel nostro modo di intendere la psicologia: strumento per ampliare la conoscenza che il paziente ha di sé, delle sue capacità e delle sue risorse e aumentare tramite tutto ciò il suo benessere psicologico e la sua soddisfazione generale di vita.