LGBT+… cosa significa?
Ormai nella società odierna è abbastanza conosciuta la sigla LBGT (abbastanza ma non del tutto, di sicuro non ancora come desidereremmo!) che sta per Lesbian, Bisexual, Gay, Transgender. È, però, davvero molto poco conosciuta la sigla estesa: LGBTQIA+ ovvero quella a cui si aggiungono Queer, Intersexual, Asexual; il + indica tutti gli orientamenti sessuali e identità di genere fluide non contenute in queste categorizzazioni. L’acronimo tenta di dare un’idea di quella che è la comunità LGBT+, estremamente eterogenea. Il fatto che sia qualcosa di poco conosciuto può voler dire solo una cosa: non se ne parla abbastanza. In effetti, il ventunesimo secolo, è il primo momento storico in cui si inizia a parlare apertamente e con curiosità di tematiche come l’omosessualità, l’identità di genere non binaria, la transessualità, la disforia di genere, etc. Forse sorprenderà alcuni di voi sapere che solo nel 1990 (parliamo soltanto di 30 anni fa!) l’omosessualità è stata ufficialmente disconosciuta come malattia.
Perché non se ne parla ancora a sufficienza e di conseguenza non si conoscono le varie sfumature del “mondo” a colori (il mondo LGBT fa della bandiera arcobaleno il suo simbolo evidenziando appunto l’infinita gamma di aspetti che lo caratterizzano)? Probabilmente perché la maggior parte delle persone che vive oggi si è trovata, almeno per una certa parte della propria vita, in un’epoca storica in cui appunto omosessuali significava essere malati, avere un problema da dover risolvere. Le nuove generazioni non sono ancora abbastanza da permettere quel ricambio generazionale che “ripulisca il campo” totalmente dagli stereotipi e dai preconcetti errati. Fortunatamente, il cambiamento è in atto, dobbiamo solo avere un po’ di pazienza.
Cosa possiamo fare nel frattempo? Parlarne, parlarne e parlarne ancora! Fare domande, indagare sui propri dubbi, avere un atteggiamento curioso non giudicante e privo da preconcetti che permetta di conoscere tematiche e aspetti a noi nuovi. Per fare ciò è importante partire “dalle basi”: il bisogno di conoscere e capire inizia spesso con il bisogno di “inquadrare” le persone, dare una definizione.
Etichette, etichette everywhere!
Quando iniziamo a rapportarci con una nuova persona, il nostro cervello cerca automaticamente e senza che ce ne accorgiamo, di incasellarla in una o più delle categorie già presenti nel nostro cervello. Il nostro cervello discrimina? No, semplicemente fa “economia cognitiva”, ricorrendo a ciò che già conosce per capire il prima possibile di più su una persona nuova. La tendenza a “etichettare” è un comportamento automatico, lo facciamo su qualunque cosa, è in realtà una strategia adattiva che permette di “risparmiare” tempo e risorse cognitive. In effetti, a pensarci bene, possiamo fare un esempio: per una donna omosessuale alla ricerca (consapevole o inconsapevole) di una partner è “utile” individuare donne eterosessuali il prima possibile, così da non “perdere tempo” a tentare un approccio che si rivelerebbe inconcludente.
L’etichettamento riguardo all’orientamento sessuale però viene fatto da tutti in modo indiscriminato, a prescindere che si abbia un potenziale interesse sessuale o sentimentale nelle persone che etichettiamo. Perché lo facciamo? Molto semplice, perché siamo abituati a farlo. È un gesto tanto automatico quanto cercare l’interruttore per accendere la luce entrando in una stanza buia. La valenza è però la stessa dell’accendere la luce? Forse non proprio, forse anzi la valenza è opposta: spesso incasellare una persona in una etichetta non ci rende la situazione più chiara e “illuminata” ma paradossalmente ci oscura la vista.
“Voglio essere così: sicuro di me, libero, pride!”
Dicevamo che uno dei motivi per cui oggi non si conosce abbastanza la comunità LGBT+ è perché non se ne parla abbastanza. Aggiungiamo inoltre che quando lo si fa è per fatti negativi, per evidenziare episodi di discriminazione e violenze rivolte alle persone omosessuali, transgender, queer, etc. Le discriminazioni sono chiaramente un fatto tanto grave quanto purtroppo frequente, e per questo è necessario parlarne e condannare fermamente certi comportamenti. Sarebbe però altrettanto importante parlare di esempi positivi, di inclusione e non solo accettazione, ma valorizzazione della diversità. Abbiamo bisogno di esempi a cui poterci ispirare, modelli su cui poter pensare “voglio essere così così sicura/o, così libera/o, così Fiera/o!”; non a caso il Pride indica la fierezza, l’orgoglio di essere liberi di mostrarsi per quello che si è!
Pensiamo che finché si parlerà di una comunità LGBT+, quindi di una minoranza, si starà marcando una diversità (noi-loro): l’ideale, forse utopistico, è che un giorno non dovremo più parlare di “comunità”, che questa differenza, soltanto numerica, non sia vista come diversità (in accezione negativa) ma come una semplice caratteristica individuale, una differenza come può esserlo il colore dei capelli.
Sentirsi nell’abito “sbagliato”
Dicevamo come la comunità LGBT è, allo stato attuale, una minoranza. Cosa significa far parte di una minoranza? Proviamo a rifletterci partendo da un esempio molto banale: siete invitati a una festa in un luogo che credete sia un locale molto alla moda, elegante; come vi vestirete? Presumibilmente in modo “appropriato” alla situazione, in modo che possiate sentirvi a vostro agio, quindi, forse, eleganti. Arrivate alla festa e vi accorgete da subito che il locale in realtà non è quello che avevate creduto, ma è un semplicissimo ristorante, un po’ rustico e casereccio. Entrate e trovate tutti gli invitati, festeggiato compreso, in jeans, maglietta e sneakers. Come vi sentite? Fuori luogo, a disagio? Siete, numericamente parlando, una minoranza in quel contesto. Probabilmente, inizierete a sentire di avere gli occhi degli altri su di voi, che stanno pensando a quanto siete diversi e, per questo, ad escludervi dal gruppo principale.
Ecco, immaginate di sentirvi così ogni giorno in ogni contesto della vostra vita. Non dev’essere piacevole vero? Sicuramente molto può fare il contesto nel mitigare lo stato di disagio: se varie persone, durante la festa, verranno a complimentarsi con voi per il look dicendovi che anche a loro era venuto il dubbio sul dress code, complimentandosi per il coraggio che avete avuto a vestirvi come più vi piaceva, forse vi sentirete un po’ più a vostro agio. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui l’orientamento sessuale sarà considerato come un vestito, un colore di capelli, una semplice preferenza, un gusto personale, il giorno in cui la minoranza della comunità LGBT+ non sarà più tale e contrapposta alla maggioranza eterosessuale. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui, entrando alla festa ognuno sarà vestito assolutamente come gli pare e nessuno sentirà il bisogno di etichettare il look come elegante o sportivo, consono o inappropriato, giusto o sbagliato. D’altronde c’è anche un famosissimo detto popolare, forse illuminante se ci soffermiamo per comprenderlo a fondo: l’abito non fa il monaco!