Conoscere il pregiudizio
per non temerlo

Conosciamo insieme il pregiudizio

Purtroppo, nella società moderna e nell’era del web, dare il proprio giudizio sembra indispensabile: si confonde la libertà di opinione e di parola con il dovere di dire cosa si pensa, anche quando non si hanno gli strumenti per avere un pensiero riguardo a una determinata tematica. Sembra quasi sconveniente stare in silenzio, non dire la propria opinione, o ancora peggio rispondere “io non lo so” quando qualcuno, direttamente o indirettamente, ci chiede un parere o un giudizio. Uno dei danni di questo meccanismo che prende vita principalmente sul web e sui social network, forse il più grande, è la disinformazione, perché? Perché la disinformazione e l’ignoranza di determinati argomenti sono la base del pregiudizio. Pregiudizio significa, infatti, letteralmente giudizio prematuro quindi una valutazione che si basa su argomenti pregressi e/o su una loro indiretta o generica conoscenza. Il pregiudizio è quello che si verifica ogni volta, quindi, che giudichiamo qualcosa senza conoscerla a fondo. Questo è il meccanismo secondo cui si crea il pregiudizio, è importante capire bene le dinamiche degli aspetti che affrontiamo nella vita quotidiana, capire il meccanismo alla base del pregiudizio è utile a non cadere a nostra volta in un pregiudizio. 

 

Pregiudizio sul pregiudizio 

Facciamo un esempio pratico: pensiamo, ad esempio, a tutte le persone che sostengono di essere contrarie alle adozioni di coppie omosessuali; se pensassimo che queste persone siano omofobe staremmo cadendo in un pregiudizio. Probabilmente è così, ma non possiamo avere la certezza che sia così nel 100% dei casi. Ritenere che questo pregiudizio possa provenire solamente da persone omofobe è a sua volta un pregiudizio, dato da una conoscenza parziale o inesatta che deriva dal non sapere come si crea il pregiudizio stesso. Infatti, chi pensa sia sbagliato che le persone omosessuali possano creare una famiglia con dei bambini, si rifà ad una conoscenza parziale ed inesatta dei bisogni di un bambino e della capacità necessarie ad assolvere compiti genitoriali, riconducendoli ad un modello di famiglia tradizionale e allo stereotipo di ruoli genitoriali abbinati al sesso di appartenenza. Dobbiamo capire questa dinamica, perché? Innanzitutto per poter rispondere efficacemente ad una persona che ha queste convinzioni e stimolare in essa una riflessione che non sia polemica, attacco e litigio, ma che sia effettivamente utile a far comprendere perché è assurdo essere contrari alle adozioni omosessuali e alle famiglie arcobaleno. In secondo luogo per poter affrontare serenamente il pregiudizio di cui, purtroppo, siamo quotidianamente vittime. Le famiglie arcobaleno e tutte le tematiche attinenti ai diritti LGBT+, infatti, non sono argomento di riflessione quotidiana per un grande numero di persone, in altre parole: moltissime persone ne sanno davvero poco. Eppure tantissimi esprimono i loro pensieri e giudizi (che in realtà sono pregiudizi).

 

Hardiness: vantaggi per tutti 

Oggi, purtroppo la nostra società è ancora piena di pregiudizi, che possono avere conseguenze anche molto importanti sulle persone. Allo stato attuale le persone LGBT+, così come qualunque minoranza sociale, si ritrovano a subire gli effetti dei pregiudizi ogni giorno. E’ possibile riuscire a conviverci? Innanzitutto è importante capirlo, capire perché esiste e come si genera; di ciò abbiamo appena parlato.  moltissimi passi avanti, a quel punto bisogna affrontare le emozioni connesse al pregiudizio. Ci sentiamo arrabbiati, offesi, delusi dalla società e dalle persone, probabilmente si ha paura del pregiudizio e delle emozioni connesse quindi di fatti questo può intaccare il nostro benessere. Come qualunque emozione negativa, non è possibile farla sparire o trasformarla magicamente in positiva, ma è possibile affrontarla, darle il giusto peso e usarla come spunto di crescita personale. Un buon modo per farlo, ad esempio, nel caso specifico potrebbe essere vedere il pregiudizio non come un ostacolo insormontabile, che ci intralcerà in moltissimi ambiti di vita, che ci esporrà a giudizi non richiesti che ci feriranno, ma vederlo come una sfida quotidiana. Questo, in psicologia, ha un nome ben preciso: hardiness. L’hardiness è la capacità di prendere lo stress negativo e non solo gestirlo, ma trasformarlo in opportunità di apprendimento quindi di fatto ricavarne qualcosa di positivo; è la capacità di vedere gli ostacoli non in accezione negativa ma in accezione positiva, come se fossero delle sfide da superare. In questo caso l’occasione di crescita, l’opportunità di cambiamento è duplice: per le “vittime” del pregiudizio saper gestire delle intense emozioni negative e per chi invece attua il pregiudizio nei nostri confronti è un’occasione di riflessione, di allargare i propri orizzonti riflettendo su qualcosa su cui non ci si era mai soffermati. 

Minority Stress

Cos’è il minority stress?

In psicologia, è stato individuato un termine per indicare il distress (ovvero stress negativo) a cui sono sottoposte le minoranze sociali, cioè gruppi di persone con delle caratteristiche differenti da quelle che prevalgono nella società in cui vivono. Le minoranze, quindi, sono tali per una questione prevalentemente numerica: le donne militari (italiane e nel mondo) sono una minoranza, le persone africane in Italia sono una minoranza, le ragazze madri (dai 18/20 anni in giù) sono una minoranza. Ogni minoranza ha, chiaramente, le sue caratteristiche ben precise, i suoi bisogni e necessità, i suoi punti di forza e debolezza. Tutte però sono accomunate da un fattore molto importante: lo stress che deriva dalla stessa appartenenza alla minoranza, dalle persistenti discriminazioni e differenze di opportunità che ne derivano. La comunità LGBT+ è considerata una minoranza quindi, in quanto tale, è sottoposta al minority stress. 

 

“La discriminazione mi stressa”

Non è facile, se non si appartiene a una minoranza sociale, immedesimarsi in questo tipo di stress peculiare che deriva dalla discriminazione esplicita o implicita. Le discriminazioni più palesi e plateali sono dirette, esplicite, forse anche mirate a ferire la persona discriminata: esempio recente tristemente noto all’opinione pubblica è il rifiuto di una donna meridionale ad affittare per un breve soggiorno il suo appartamento disponibile su una piattaforma rinomata ad una coppia di uomini in vacanza. La donna, infatti, non ha assolutamente dissimulato le ragioni del rifiuto: “non affitto ai gay”. 

Per quanto una persona possa essere psicologicamente equilibrata, avere un benessere solido e una soddisfazione generica di vita, essere sottoposti a tali discriminazioni è indubbiamente qualcosa che ferisce, fa arrabbiare, rende delusi, tristi, fa percepire un senso di impotenza. Tutti questi sentimenti negativi, anche se provati per una frazione di secondo, si sedimentano nella psiche delle persone contribuendo a creare questo stress. In certi casi, questi sentimenti negativi possono essere così intensi e ingestibili che la persona percepisce la necessità di parlarne con uno psicologo. Inoltre, le discriminazioni non sono sempre di questo tipo, esplicite e molto dirette, spesso sono più implicite e quindi subdole. Pensate ad una bambina che non viene invitata alla festa di compleanno del compagno di classe: il motivo è che i genitori non riescono a concepire come la bambina possa avere due mamme e nessun papà, nessuno lo dice ma tutti lo sanno. Questa forma di discriminazione è particolarmente subdola, passa attraverso una terza persona e si può sommare anche all’indifferenza della maggior parte delle persone che, di fronte a questa profonda ingiustizia, si girano dall’altra parte. 

 

Come gestire il minority stress: l’unione fa la forza

Le minoranze, come già detto, in quanto tali sono caratterizzate dal peculiare stress derivante dalle discriminazioni. Hanno però un’altra peculiarità, opposta o forse speculare: una forte coesione interna. I gruppi minoritari, che sia per istinto di sopravvivenza, che sia per spiccata empatia derivante dalle stesse esperienze negative (discriminatorie) sono molto coesi, si supportano e sostengono a vicenda. La comunità LGBT+ in particolar modo ha un fortissimo senso di solidarietà interna, elemento fortemente positivo per combattere le discriminazioni. Questa, però, non può certamente essere la soluzione definitiva. Per ridurre, o eliminare completamente, il minority stress, è importante prima di tutto una tutela dalle discriminazioni subite che parta primariamente dallo Stato, con l’approvazione di una Legge contro l’omobitransfobia. Infine, è necessaria una forte spinta educativa a livello sociale che porti a un cambiamento di percezione delle persone che facciano parte di una qualsiasi minoranza in ambito sessuale: da “minoritaria” a, semplicemente, differente e per questo unica.

I comportamenti sessuali
a rischio sono più
frequenti negli omosessuali?

I comportamenti sessuali: il piacere può essere un rischio. 

Nella vita quotidiana sono tanti i rischi a cui siamo esposti per la nostra salute, alcuni fanno più paura di altri quindi li teniamo maggiormente sotto controllo. Tra questi rischi, ad esempio, si può pensare a quello di incidente stradale, di incorrere in gravi malattie o di essere coinvolti in attacchi terroristici. Chiaramente, la probabilità di incorrere in tali eventi varia molto, eppure il rischio percepito non corrisponde proporzionalmente alla probabilità che si verifichi (ad eventi più probabili come un incidente stradale non si abbina una percezione più grave del rischio). Uno dei rischi più sottovalutati dall’opinione pubblica e di conseguenza dalle singole persone riguarda il comportamento sessuale. Pensando alla sessualità, si pensa spesso a qualcosa di piacevole e gratificante e poco vengono in mente a primo impatto i rischi connessi. Ciò a cui ci si riferisce quando si parla di comportamenti sessuali a rischio è proprio il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. I comportamenti sessuali a rischio sono un “tema caldo” oggi, in particolare per alcuni gruppi di persone: per gli adolescenti, alle prime prese con le tematiche del sesso e i rischi connessi e per gli uomini omosessuali. Per lunghissimo tempo, infatti, l’AIDS è stata associata quasi esclusivamente agli uomini gay e ai tossicodipendenti. In effetti il rischio di contrarre la malattia tra queste persone era nel passato molto alto (all’inizio degli anni ‘80 ci fu una vera e propria epidemia!): a causa della poca conoscenza della malattia e in particolare delle modalità di trasmissione spesso le persone non adottavano le giuste precauzioni.

 

Gli uomini gay sono più a rischio?

Nonostante le informazioni rispetto alla prevenzione siano maggiormente diffuse di un tempo, i comportamenti sessuali a rischio sono molto frequenti nella popolazione sessualmente attiva di persone omosessuali, di uomini in particolare. Come mai? Esistono diverse MST che differiscono per modalità di contagio, manifestazioni e sintomi; possono, tuttavia, essere contratte da chiunque, indipendentemente dall’identità di genere. Perché, allora, dovrebbero dipendere dall’orientamento sessuale? Il rischio di contagio è maggiore per gli uomini gay poiché, in effetti, alcuni studi hanno evidenziato che essi tendono ad avere relazioni sessuali con vari partner più frequentemente sia rispetto alle persone eterosessuali che rispetto alle donne omosessuali, per cui si espongono con maggiore probabilità al rischio di contagio. 

Per proteggersi dalle MST l’unico modo efficace è l’utilizzo di protezioni di barriera: il profilattico protegge dalla maggior parte delle infezioni ma non viene sempre utilizzato. Il motivo di ciò è relativamente comprensibile pensando a coppie stabili di uomini che, non avendo il rischio di gravidanze indesiderate e sentendosi “sicuri” del partner in salute non sentono la necessità di usare il profilattico. Pensando invece a uomini gay sessualmente attivi che non hanno una relazione stabile e che incontrano quindi diversi partner sessuali (che a loro volta possono averne avuti degli altri) le probabilità di contagio, effettivamente, sono più elevate. 

 

Conoscenza e consapevolezza: le armi migliori 

Una possibile spiegazione del fenomeno è ciò che in psicologia viene definito bias del falso consenso: si tende a sovrastimare il numero di persone che si comportano in linea al proprio comportamento per giustificare di fatto le proprie azioni e “non sentirsi in colpa”. Il meccanismo diventa quindi: “nessuno usa il preservativo, è normale ed ovvio che neanche io lo usi”. 

Un’altra possibilità che spinge a fare sesso non protetto è il gusto per il rischio, ritenuto eccitante, così come la percezione di fidarsi totalmente dell’altro. In poche parole, la pratica del barebacking, cioè praticare sesso anale senza protezione, alimenta per alcuni l’eroticismo della sessualità aumentando l’eccitazione legata all’ignoto. Il sesso non protetto in tali casi è quindi valorizzato e associato a libertà, spensieratezza e divertimento. In alcuni casi, le persone possono assumere dei farmaci prima o dopo il rapporto non protetto, come la PREP, per minimizzare il rischio di contrarre l’HIV. A complicare la situazione, c’è un ulteriore elemento: le persone sieropositive, essendo state per lunghissimo tempo stigmatizzate e discriminate, hanno spessissimo vergogna a rivelare la loro sieropositività, specie a partner sessuali occasionali che non conoscono bene e con cui non si sentono in reale intimità, quindi acconsentono a volte a rapporti non protetti pur di non “essere scoperti”. Il rischio maggiore è chiaramente quello di venire contagiati ed essere sieropositivi senza esserne a conoscenza, mettendo così a rischio la propria salute (poiché non si assumono i farmaci necessari) e l’incolumità di altre persone. Chiaramente i rischi sono sì maggiori per uomini omosessuali, ma non sono assenti per il resto delle persone: per le donne la malattia più diffusa negli ultimi 5 anni è la candida, anche loro (sia etero che omosessuali) sono esposte al rischio di HIV (che non è prerogativa degli uomini omosessuali come purtroppo ancora oggi moltissime persone pensano) così come di gonorrea, sifilide, herpes genitale etc. L’arma migliore contro i comportamenti sessuali a rischio è la conoscenza e la consapevolezza, possibile solo tramite la prevenzione e la giusta informazione, da veicolare tramite l’educazione sessuale già da giovanissimi, quando si inizia a scoprire la sessualità.

Famiglie omogenitoriali

Famiglia “tradizionale” e famiglie “moderne”? 

La famosissima serie americana “Modern Family” racconta le vicende di una famiglia che racchiude in tre nuclei familiari molte forme di quelle che oggi vengono definite, appunto, “famiglie moderne”. Jay, padre capofamiglia di mezza età si unisce nelle sue seconde nozze a una donna colombiana molto più giovane di lui, con un figlio adolescente (famiglia ricomposta e multietnica); i suoi figli avuti dal primo matrimonio (famiglia separata) hanno a loro volta le loro famiglie: Claire ha una famiglia “tradizionale”, quindi un marito e tre figli; Mitchell invece ha a sua volta una famiglia moderna, è infatti sposato con il suo compagno Cam e nel corso della serie adottano la loro bambina Lily (famiglia omogenitoriale e adottiva). La serie è notoriamente comica, è infatti una parodia di quelle che sono le così dette famiglie moderne, ma basta guardarne alcune puntate che ci si rende conto di come, le dinamiche delle famiglie moderne sono spesso sovrapponibili a quelle di una famiglia tradizionale. Inoltre, oggi, non ha più molto senso parlare di “famiglia tradizionale” e prenderla a modello, poiché questa è nettamente in minoranza numerica rispetto a tutti gli altri tipi di famiglia. Oltre le famiglie ricomposte, omogenitoriali, adottive, multietniche, non bisogna dimenticare le famiglie monogenitoriali (con un solo genitore, per scelta o per necessità, ad esempio a seguito di lutti o divorzi difficili) e le famiglie con figli nati con PMA cioè metodi di procreazione medicalmente assistita. Tutte queste famiglie sono state studiate dalla ricerca scientifica e psicologica per dimostrare che non ha senso considerare famiglie di serie A e famiglie di serie B e in particolare per evidenziare come il benessere dei figli non dipende dalla configurazione familiare ma dalla capacità del nucleo familiare di soddisfare i bisogni basilari e di assolvere efficacemente al compito genitoriale

 

Famiglie omogenitoriali: un punto di vista legale 

Per famiglie omogenitoriali, come quella di Mitch, Cam e Lily, si intende un nucleo familiare in cui i genitori siano una coppia omosessuale che si prende cura di figli sia nati da precedenti relazioni eterosessuali, sia nati da progetti di PMA o progetti adottivi a cui la coppia ricorreIn Italia, purtroppo, non esiste alcuna legge che regolamenti e tuteli la genitorialità di una coppia omosessuale. Nel nostro paese è legalmente riconosciuto come genitore solo il genitore biologico del bambino; il cosiddetto “genitore elettivo” per la legge semplicemente non esiste. Chiaramente, questa situazione porta a delle conseguenze psicologiche importantissime per le famiglie omogenitoriali presenti in Italia: la percezione di essere invisibili, discriminati e non esistere come famiglia. Inoltre, i figli di coppie omogenitoriali non vedono riconosciuti dalla legge entrambi i genitori, che ovviamente riconoscono ad un livello affettivo: questa non è una tutela legale del bambino. Infatti, un bambino che nasce e cresce in una famiglia con due genitori dello stesso sesso, ovviamente, non percepisce uno scarto, una differenza, tra il genitore biologico e il genitore elettivo, sono entrambi suoi genitori allo stesso modo. Come si può sentire un bambino che, banalmente, non può far firmare le autorizzazioni per le gite scolastiche da uno dei suoi due papà o da una delle sue due mamme (perché non è riconosciuto legalmente né come tutore né come genitore)? Inoltre, come si possono sentire i genitori? E come possono spiegare al figlio il perché della situazione e dei sentimenti che ne derivano? Il senso di frustrazione è spesso molto forte e ancor prima la paura di tutte le difficoltà e i sentimenti negativi può seriamente mettere in discussione la scelta di una coppia omosessuale di avere un figlio, scelta che per forza di cose diventa “sofferta”. Tutto ciò è profondamente ingiusto, per fortuna in Italia ci sono alcune associazioni che si battono per la tutela dei diritti di queste famiglie e di questi bambini, come ad esempio “Rete Lenford”, associazione di avvocatura per i diritti LGBT, o “Associazione famiglie arcobaleno”. Non è impossibile, infatti, far riconoscere legalmente la genitorialità anche al genitore elettivo, ma bisogna intraprendere dei procedimenti legali molto lunghi, stressanti e onerosi. 

 

Famiglie omogenitoriali: un punto di vista sociale

Come se non bastasse il peso dato dalla situazione legale che le famiglie arcobaleno devono portare, a questo si aggiunge spesso un peso sociale. Gli altri tipi di “famiglie moderne”, infatti, sono estremamente meno giudicate e discriminate dalla società rispetto alle famiglie omogenitoriali. Spesso i ricercatori hanno ipotizzato il motivo di ciò: sicuramente un grande contributo è dato dalla situazione legislativa: se qualcosa, per la legge, non esiste i cittadini inevitabilmente e inconsapevolmente si sentiranno legittimati a non rispettarla, a discriminarla quando vi si trovano di fronte. Ad esempio, lo si può notare in gesti ordinari, quotidiani, come lo stupore che i genitori dei compagni di scuola dei figli di genitori omosessuali mostrano nel sapere che quel bambino ha due papà o due mamme. Il problema è, chiaramente, culturale. Il tabù, inoltre, si autoalimenta: le coppie omosessuali quando diventano genitori sono spesso molto angosciate nel pensare alle discriminazioni in cui potrebbero incorrere i figli, quindi cercano più possibile di proteggerli. Un esempio potrebbe essere quello di ricercare degli “ambienti protetti”; come iscrivere i figli in scuole private, dove il livello socio-economico e culturale si presuppone essere più elevato. Ovviamente non è sempre così: anche nelle situazioni presunte più sicure potrebbero manifestarsi episodi di discriminazione. Proteggere i propri figli da un mondo giudicante è naturale per un genitore che non vuole che passi le stesse sofferenze che ha passato lui/lei; tuttavia, guardiamo al giorno in cui non sarà più necessario, cioè quello in cui non si verrà più discriminati per una qualsiasi diversità in ambito sessuale.

Vita di coppia omosessuale

La vita di coppia è per tutt*?

Instaurare relazioni (affettive, romantiche, sessuali, platoniche, etc.) è per molti un bisogno primario, che trova le sue basi nell’attaccamento infantile che il bambino sviluppa verso le persone che si prendono cura di lui, per ricavarne protezione e cure. Non è, però, un bisogno fondamentale per tutt*: basti pensare alle persone asessuali, che non provano attrazione erotica verso nessun genere, o quelle aromantiche, che non provano attrazione romantica. Se, nell’immaginario comune, risulta facile pensare alle relazioni eterosessuali, al contrario quelle affettive e sessuali delle persone LGBT+ risentono di radicati stereotipi. Immaginiamo, per esempio ad una coppia di uomini omosessuali: spesso si pensa che non desiderino legami duraturi, ma siano interessati solo a relazioni prevalentemente sessuali a breve termine, inclini al tradimentoSebbene ciò può essere reale per alcuni uomini omosessuali, non si può credere, come spesso si fa, che sia sempre così: questo è spesso uno stereotipo che può condizionare negativamente i loro vissuti relazionali. Infatti, non si può invalidare, come spesso si fa, l’esistenza di un’altra grande parte di persone: coppie omosessuali stabili e di lunga durata

 

Le relazioni omosessuali di lunga durata sono “atipiche”?

Le coppie omosessuali, in realtà, vivono la grande maggioranza delle dinamiche relazionali di qualunque altra. Ciò che è diverso è che fanno parte di una minoranza e purtroppo si trovano a dover fare i conti con diverse discriminazioni omofobiche e il conseguente stress: anche per questo motivo, portare avanti una relazione omosessuale può essere più complesso del previsto. I pregiudizi e gli stereotipi verso le coppie omosessuali maschili esistono, e nascono, ad esempio, da una “difficoltà” che la maggior parte delle persone riscontra nel pensare alla divisione di ruoli all’interno di una coppia omosessuale. Purtroppo la nostra società non offre dei modelli di riferimento, degli esempi di coppia omosessuale, dei ruoli di genere specifici in cui identificarsi in quanto omosessuali in coppia stabile. Sebbene i ruoli di genere e sessuali rischino spesso di diventare una gabbia relazionale, possono essere “nella giusta misura” utili a costruire un senso dell’identità individuale e relazionale solido. La mancanza di una netta divisione di ruoli e di modelli è quindi fonte di confusione e incertezza, sia per chi osserva le coppie omosessuali dall’esterno ma anche per queste stesse coppie che potrebbero identificarsi in quello che è il pregiudizio comune: “le coppie omosessuali maschili non dureranno”. Questo, insieme ad altri fattori negativi, tra cui ad esempio lo scarso supporto sociale che spesso le coppie omosessuali ricevono dalle rispettive famiglie di origine, contribuisce enormemente a creare un notevole stress.  

 

Un viaggio in canoa

Le relazioni sentimentali sono per definizione complesse da gestire: si deve continuamente cercare di capire i bisogni del partner senza però trascurare i propri; si deve gestire insieme la quotidianità in tutti i suoi aspetti, e trovare punti di accordo sui punti di divergenza (riguardo a qualunque cosa: interessi, hobby, amicizie, famiglie di origine, figli, etc.). Nel momento in cui a questa complessità (di base) si somma il minority stress, lo scarso supporto sociale a cui possono essere soggette le coppie omosessuali e le discriminazioni ancora troppo diffuse è chiaro come l’impegno da investire per “far funzionare” la relazione omosessuale sia notevolmente più alto di qualunque coppia eterosessuale. Pensando alla propria esperienza, sarà capitato a tutti in periodi particolarmente stressanti di riversare il proprio nervosismo sulle persone più vicine, spessissimo sul partner. Se la “causa” dello stress è la relazione stessa, non perché non funzioni in sé, ma perché forze esterne interferiscono al suo normale equilibrio, è chiaro come la difficoltà sia notevole. Se volessimo immaginare le relazioni come una navigazione in canoa possiamo immaginare le discriminazioni a cui sono soggette le coppie omosessuali come delle onde particolarmente insidiose: alcune coppie hanno in sé la forza per continuare a remare insieme e sincronizzati, ma in altre coppie potrebbe accadere che uno o entrambi i rematori, estenuati, decidano di abbandonare la canoa proseguendo il viaggio a nuoto, ognuno per la sua via.

 

Una prospettiva positiva sulla vita di coppia omosessuale

Per non farsi travolgere dalle onde e dalle difficoltà quotidiane, per non abbandonare la canoa, è molto importante che la coppia trovi un suo equilibrio. Come fare? Non può esistere, chiaramente, una “ricetta universale”: ogni coppia è unica nel suo genere e deve trovare in sé stessa gli elementi che permettono una stabilità. Prima di tutto, è importante riconoscere l’esistenza dei ruoli di genere e comprendere se e come stanno influenzando le nostre stesse credenze sulla durata della relazione. Inoltre, proprio come i viaggiatori in canoa, è molto importante sincronizzarsi ciascuno al ritmo dell’altro, remare più forte quando vediamo che il partner è troppo stanco e concederci un po’ di riposo quando noi ne abbiamo bisogno, forti del fatto che il nostro compagno non ci farà affogare. Sapere, infatti, che il partner è lì a sostenerci nei momenti di difficoltà è un elemento irrinunciabile per trovare quell’equilibrio e quella serenità che permette a ciascuna coppia di affrontare anche le tempeste più difficili.

Ruoli di genere:
la persona
si adatta al ruolo
o il ruolo alla persona?

Fiocco rosa o fiocco blu

Se in famiglia avete di recente accolto una nuova nascita saprete benissimo che già durante la gravidanza e in rari casi al momento della nascita (quando si vuole “la sorpresa”), la prima domanda in assoluto è: maschietto o femminuccia? La prima informazione che vogliamo riguardo a una nuova persona che viene al mondo è il suo sesso. Ci siamo mai chiesti come mai? Il sesso di una persona rientra in tutte quelle etichette che automaticamente attribuiamo alle persone per decidere “velocemente” come interfacciarci con esse, cosa aspettarci dal loro comportamento. Questa etichetta automatica non rientra però nel sesso biologico, che essendo appunto biologico è “inequivocabile” (tranne in alcuni rare eccezioni mediche, le condizioni di ermafroditismo), ma in un costrutto sociale, una convenzione che abbiamo “inventato” nel corso dei secoli e grazie alla nostra cultura: il ruolo di genere. Il ruolo di genere è, insieme al sesso biologico, l’identità di genere e l’orientamento sessuale una delle quattro componenti della sessualità, una delle parti cioè che definisce la nostra identità dal punto di vista sessuale. Come dicevamo è una convenzione sociale e infatti a culture diverse corrispondono ruoli di genere diversi, comprende infatti i comportamenti socialmente attribuiti alle persone in base al loro genere. 

 

Costruire i ruoli di genere fin dall’infanzia

I ruoli di genere, essendo convenzioni sociali, si costruiscono nella storia filogenetica, cioè la Storia (con la S maiuscola), la storia della specie e dell’evoluzione degli esseri umani sulla base anche dei cambiamenti culturali e si costruiscono nella storia ontogenetica ovvero la storia di vita e di sviluppo di ciascun singolo individuo. La cultura ci plasma con una connotazione ben precisa dei ruoli dei generi fin da piccoli. Riusciamo a pensare a un esempio? Cosa contraddistingue l’età infantile? Cosa fanno i bambini che da grandi, purtroppo, smettiamo spesso di fare? Giocano! Proprio nel gioco si ha già un esempio di netta distinzione basata sui ruoli di genere: ai maschi calcio e macchinine, alle femmine danza e bambole. Questo è solo un esempio ma potremmo farne moltissimi altri: sul piano estetico (ai maschi il blu, alle femmine il rosa), sul piano scolastico (ai maschi compiti logico-matematici, si promuove l’intelligenza pratica; alle femmine i compiti narrativi e riflessivi, si promuove l’intelligenza emotiva) sul piano “caratteriale” (alla femminilità è associata la delicatezza, alla mascolinità la forza). Non vi abbiamo ancora convinto che i ruoli di genere siano una convenzione sociale? 

Provate a osservare dei bambini abbastanza piccoli, 3-4 anni, o se ci riuscite provate a ricordare voi stessi da bambini: è molto probabile che si desiderino nella propria infanzia i giochi della sorella, della cugina, dell’amichetta di asilo ed è altrettanto probabile che se siete dei maschi i vostri genitori vi abbiano impedito l’accesso a quei giochi, sostituendoli con altri più “appropriati”. Ma appropriati per chi? Per la società, ovviamente. Ogni genitore desidera vedere il proprio figlio felice e ben inserito nel contesto sociale, per potersi inserire sono necessarie però delle regole, attenersi a degli standard. Gli standard dei ruoli di genere sono quelli più chiaramente comunicati e di conseguenza interiorizzati tra le varie convenzioni sociali. 

 

Ruolo di genere: come devi essere e come non devi essere

“Non si mangia con la bocca aperta”, “si ringrazia sempre”, “non si va in giro nudi” “non si assume un ruolo femminile se si è maschi e viceversa”. Cosa hanno in comune queste quattro affermazioni (o imperativi)? Sono convenzioni sociali, le regole che dobbiamo rispettare per vivere bene nel contesto comunemente condiviso tra gli esseri umani. Cosa hanno invece di diverso? Le prime due sono regole sociali esplicite, si insegnano in modo chiaro ai bambini, sono frasi che realmente si pronunciano; le ultime due sono invece prevalentemente implicite, i bambini le apprendono non tanto perché qualcuno le dica ma perché le interiorizzano in modo indiretto dall’ambiente. Non si vede infatti nessuno andare in giro nudo per strada così come si valuta molto negativamente una persona che assume comportamenti attinenti al ruolo di genere del sesso opposto (quante volte ancora oggi sentiamo pronunciare frasi come “non piangere come una femminuccia?”). Purtroppo, già da bambini i maschi vengono spesso mortificati e sviliti se esprimono il desiderio di assumere un ruolo femminile (ad esempio fare danza o vestirsi di rosa), così come le femmine vengono fortemente ostacolate se esprimono il desiderio di assumere un ruolo maschile (ad esempio giocare a calcio). Non si dice in modo diretto “devi attenerti al tuo ruolo di genere”, ma la comunicazione arriva comunque forte e chiara! Il ruolo di genere viene quindi interiorizzato non solo perché passa il messaggio di quanto sia negativo assumere il ruolo del genere opposto, ma anche di quanto sia positivo e di valore assumere i ruoli del proprio genere (le bambine vengono quindi elogiate quando aiutano la mamma ad apparecchiare la tavola mentre i bambini vengono elogiati quando hanno successo nel loro sport). Questa comunicazione, molto chiara, arriva non solo dai genitori, che attuano questi comportamenti per proteggere i propri figli da uno stigma sociale e da una derisione da parte dei coetanei (veicolano quindi il messaggio “in buona fede”), ma arriva anche dagli insegnati, dagli allenatori, dalle pubblicità che vedono in tv, a volte anche dai cartoni animati.  

 

Interiorizzazione: la macchia d’erba sui jeans

Il ruolo di genere viene interiorizzato fin dalla prima infanzia. Per intenderci quando parliamo di interiorizzazione è un processo che può essere paragonato alle macchie di erba fresca sui jeans: specialmente se siete donne, saprete benissimo che è davvero difficile rimuovere una macchia di erba dai jeans, potrete lavarli all’infinito, un piccolo alone resterà sempre. Così funzionano le interiorizzazioni e così funzionano i ruoli di genere: permangono ben saldi per tutta la vita dell’individuo, continuando a prescrivere “come comportarsi” praticamente in ogni ambito. Parlavamo di lavatrici e donne… questo è esattamente ciò che si intende per ruolo di genere (anche abbastanza stereotipato, a dire la verità): le donne fanno le lavatrici, gli uomini no. Le donne gestiscono la casa e si occupano dei figli; gli uomini si concentrano sul lavoro. Questa divisione dei ruoli di genere è estremamente radicata nella nostra cultura e trova le sue origini in un modello di famiglia che era prevalente negli anni ’50, in cui gli uomini lavoravano in fabbrica e le donne accudivano i bambini. Continua a persistere oggi nonostante le famiglie e le loro esigenze, così come le esigenze dei singoli, siano estremamente diverse!

 

“Bastava chiedere”

Le necessità di uomini e donne sono cambiate oggi rispetto a 70 anni fa. Eppure continua a persistere una divisione dei ruoli di genere, nell’immaginario comune, prevalentemente basata sui ruoli che erano propri degli anni ‘50. Questo ha un forte impatto nella vita delle persone: in ambito lavorativo ci si aspetta che le donne investano meno sulla carriera rispetto agli uomini e vengono considerate come meno adatte a ruoli dirigenziali e di responsabilità; in ambito sportivo si hanno classifiche, competizioni, addirittura attrezzature diverse per uomini e donne, nonostante sia stato dimostrato da vari studi come le presunte prestazioni inferiori delle donne siano dovute in misura molto maggiore a stereotipi sociali e aspettative di “fallimento” nei confronti delle donne e non invece a reali “limiti” fisici di quest’ultime (Chalabaev et al., 2013); in ambito familiare, infine si parla molto ultimamente di carico mentale o domestico a cui sono sottoposte le donne. Riguardo all’ultimo aspetto in particolare, è diventato virale il fumetto “bastava chiedere” di Emma, blogger femminista francese, trasposto anche in libro nel nostro paese, che illustra cosa sia il carico mentale delle donne: la pressione a cui ogni donna in una coppia stabile è sottoposta, il doversi fare carico appunto della gestione in toto della casa e della vita familiare e di coppia. I compiti affidati culturalmente alle donne riguardano davvero ogni singolo aspetto di vita pratica: fare le lavatrici, accompagnare i bambini, fare la spesa e cucinare, pulire casa, pagare le bollette, organizzare le vacanze e le uscite a cena con gli amici; insomma uno stress senza fine, a cui si aggiunge chiaramente lo stress lavorativo di cui spesso gli uomini si “lamentano” anche molto più delle donne. Questi compiti sono automaticamente affidati alle donne, tant’è che gli uomini quasi si stupiscono alle disperate richieste di collaborazione delle loro compagne, esordendo spesso appunto con un lapidario “bastava chiedere”. Si percepiscono come esecutori di compiti affidatigli in via temporanea dalle compagne, principi che salvano la principessa dai suoi obblighi (e spesso si aspettano anche riconoscenza e gratitudine per questo immenso sforzo). Hanno un ruolo del tutto passivo e per niente proattivo e collaborativo nella gestione domestica e questo non dipende affatto da loro, ma da ciò che la cultura e la società li ha portati a interiorizzare. Il “bastava chiedere” può essere considerato, a nostro avviso, come una forma molto sottile di sessismo benevolo, cioè quella forma di sessismo più difficile da identificare, celato, che attribuisce alle donne non apertamente caratteristiche negative di inferiorità e sottomissione ma caratteristiche di fragilità, necessità di protezione, necessità di un uomo. La donna che, infatti, “esaurita” la sua forza interna e le sue risorse energetiche chiede la collaborazione dell’uomo è percepita da questo come una creatura fragile, bisognosa del suo supporto, del suo intervento che “la salvi”. La maggior parte degli uomini, fortunatamente non tutti (attenzione sempre a non generalizzare!) percepisce i doveri domestici come relegati alla donna e il suo contributo è quindi un favore, una salvezza per la donna che, fragile, non sa gestire i suoi compiti, qualcosa che è necessario chiedere perché non è scontato. 

I ruoli di genere, in conclusione, ci possono aiutare a identificarci con un’idea condivisa, a capire cosa ci si aspetta da noi ma purtroppo sempre più di frequente nella società odierna hanno la pericolosa tendenza a diventare gabbie: devono essere flessibili e adattarsi ai cambiamenti nelle esigenze di vita di uomini e donne, alla tendenza verso una parità tra generi, adattarsi alle esigenze di famiglie (al plurale, perché sono vari i tipi) e di singoli; questa flessibilità può essere data solo da una mentalità plastica e malleabile, di gomma e non di ferro cosicché possa essere il ruolo ad adattarsi alla persona e non la persona ad adattarsi al ruolo.

Accettare il proprio corpo

L’importanza del corpo

L’era digitale che caratterizza questo modo governato dai social network ci impone, molto più rispetto che in passato, di prestare attenzione ad un elemento imprescindibile nella nostra vita e nella nostra quotidianità: il nostro corpo. Il corpo è ci accompagna e noi accompagniamo lui: è proprio per questo motivo che è importante prestarvi le giuste cure ed attenzioni.  Un’alimentazione sana, uno stile di vita attivo, delle “coccole” che possiamo concederci (massaggi, scrub, fanghi, trattamenti elasticizzanti e chi più ne ha più ne metta), sono tutte buone abitudini per mantenere un corpo sano e (soprattutto) bello! Ebbene si, purtroppo il fine ultimo di tutte queste attenzioni e cure per moltissime persone è oggi il “bello”. Viene, infatti, considerato più importante sulla scala gerarchica delle priorità rispetto alla salute: apprezzare il proprio corpo dal punto di vista estetico (ma soprattutto far sì che gli altri possano apprezzarlo!) viene prima dell’avere un corpo in salute. Ma, quanto malessere (psichico) può celarsi dietro un corpo apparentemente perfetto? 

 

Il “bello” è relativo

Corpo “bello” e “Salute” non sono sinonimi e non sono indissolubilmente connessi. Perché? In primis: il bello è relativo. Ogni epoca ha il suo concetto di bellezza, nell’epoca odierna complici anche i social network e la nuova “moda” del fitness, corpi belli sono corpi atletici, muscolosi, definiti, senza un filo di grasso, in una parola “perfetti”. Le persone che possono avere per “costituzione” naturale questo tipo di corpo rasentano lo 0% della popolazione mondiale: nessun essere umano, senza una dieta controllata ed un allenamento assiduo può avere il corpo che siamo abituati a vedere degli influencer di instagram e dei social in generale. Oggi in particolar modo, a differenza di quello che qualche personaggio dello spettacolo vorrebbe (maldestramente) farci credere, quella che è considerata la bellezza non può “capitare”, va ricercata e mantenuta, in modo assiduo e costante. Si ha una smodata ed asfissiante ricerca della perfezione corpo.  Perché? A cosa ci serve un corpo perfetto? La società risponde: a tutto! Il messaggio che la stragrande maggioranza della popolazione, specie tra le fasce più giovani, riceve quotidianamente è: il bello ha successo (e il successo nella moderna società narcisistica è la linfa vitale di cui ci nutriamo). 

 

Ad ogni sesso la sua bellezza

Confrontiamo quotidianamente i nostri corpi con l’ideale di bellezza perfetta a cui siamo (sovra)esposti quotidianamente. Come possiamo sentirci al riguardo? La maggior parte delle persone, anche quelle che riescono oggettivamente a raggiungere buoni risultati tramite palestra/sport e alimentazione, si sentono insoddisfatte. C’è sempre quel dettaglio che si può migliorare, quel centimetro di troppo, quel muscolo troppo poco definito. Perché questo ha un impatto molto forte e molto negativo sul nostro benessere psichico? Perché nella società delle apparenze, l’apparenza è ciò che conta, il corpo è il nostro “biglietto da visita” e la bilancia con cui pensiamo il nostro valore. Probabilmente questa visione sembra esagerata in riferimento alle generazioni più adulte, ma, dai 30 anni in giù, più diminuisce l’età più si fa pesante il carico della perfezione estetica.  Questa preoccupazione, nelle generazioni giovani, è abbastanza “democratica”: è importantissima tanto per le ragazze quanto per i ragazzi. L’ideale di bellezza chiaramente si adatta al sesso: nelle donne lo stereotipo di genere della femminilità si abbina a corpi snelli, esili, tonici ma non forzuti, magri e “delicati”; negli uomini lo stereotipo di genere impone virilità quindi corpi muscolosi, definiti, forti. C’è un luogo virtuale, in particolare, in cui l’importanza attribuita al corpo è evidente in tutta la sua forza: le app di dating. Le app hanno lo scopo di mettere in contatto persone interessate a intraprendere relazioni sentimentali e/o sessuali, è quindi, forse, ovvio che mettano in primo piano il corpo. Lo è ancora di più per un gruppo di persone in particolare: gli uomini omosessuali. Perché?

 

L’hegemonic masculinity

I ragazzi omosessuali, in generale, tendono a usare di più le app di dating rispetto ai coetanei eterosessuali e rispetto alle ragazze. Il profilo “tipico” del ragazzo su Grindr (una delle app di dating maggiormente utilizzata dalle persone omosessuali) è un ragazzo atletico, muscoloso, che esibisce il corpo e lo ostenta, facendone di fatti il suo punto di forza e il suo biglietto da visita con altri potenziali partner.  La nostra società, oltre a dare molto peso alle apparenze in modo indiscriminato, fa sì che il corpo, e quindi la sessualità, diventino l’unico strumento di cui possono servirsi molti ragazzi omosessuali che non hanno accettato appieno il proprio orientamento sessuale: la società discriminatoria insinua nel ragazzo un pensiero rifiutante rispetto all’omosessualità e la associa a un’espressione di genere femminile. Una delle possibili conseguenze è quella di mettere in atto dei meccanismi compensatori per accettarsi: essere “più maschio”. Come fare? Proprio con l’ostentazione del corpo e con il servirsene per instaurare relazioni sessuali, per attrarre. È, quindi, grazie alla mascolinità e all’apparenza del corpo perfetto che si riesce a conquistare l’apprezzamento dell’altro e questo è funzionale a compensare il senso di inadeguatezza, forse anche inconsapevole, che si prova a causa del proprio orientamento sessuale (o meglio a causa del fatto che la società discrimina il proprio orientamento sessuale). Questo meccanismo, apparentemente complesso, ha un nome ben preciso: hegemonic masculinity. Prevede che gli uomini rappresentino il proprio essere “maschi” con caratteristiche stereotipiche di forza e virilità, ostentandole per compensare un implicito senso di colpa derivante dall’essere gay. 

Orientamento sessuale:
questione di gusti

I gusti sono gusti

Immaginiamo di trovarci in un caldissimo pomeriggio estivo, insieme al nostro gruppo di amici, ad entrare in una gelateria: trovandoci di fronte al bancone dei gelati sperimentiamo di certo un iniziale momento di confusione e trepidante desiderio di mangiare tutti i gusti di gelato presenti. Alla fine però, riusciamo sempre a scegliere alcuni gusti, alcuni dei nostri amici scelgono sempre gli stessi, altri sperimentano gusti vari, altri ancora hanno avuto il coraggio di scegliere davanti i nostri occhi gusti di gelato a nostro avviso immangiabili (dai, non ditemi che nessuno di voi ha storto il naso di fronte al gelato “Puffo”… ma che è?? Colorante allo stato puro).  Avendo compiuto ognuno la sua scelta, siamo tutti contenti del nostro gelato, ce lo gustiamo felicemente ed è davvero improbabile che il famoso amico che avesse scelto il gusto “puffo” si sia sentito inadeguato per aver preso un gelato “impopolare”. Vi stare chiedendo dove vogliamo arrivare… semplice no? I gusti sono gusti. Non abbiamo il diritto di sindacare sui gusti altrui, né che si tratti di gelato, né che si tratti di abbigliamento, né che si tratti di partner sessuali e sentimentali. L’orientamento sessuale è una questione di gusti!

 

“Dimmi chi ami e ti dirò se puoi prenotare”

Nell’agosto 2019 “Il fatto quotidiano” riporta un fatto di cronaca che vede protagonista un ragazzo di Modena, il quale aveva nei suoi programmi qualcosa di semplicissimo e molto prevedibile dato il periodo: andare in vacanza. Come mai è finito sul giornale? La proprietaria del B&B che ha prenotato tramite una piattaforma online si è rifiutata di accettare la prenotazione dopo aver appreso che il ragazzo sarebbe stato in compagnia… del suo ragazzo.  La domanda che lascia (almeno noi) davvero perplessi è: perché il gestore di un albergo dovrebbe interessarsi della vita intima e privata dei suoi ospiti? Senza entrare nel merito della questione discriminatoria (perché di discriminazione a tutti gli effetti si tratta), il “problema” sta a monte. Prima ancora di addentrarsi in tutte le analisi psicologiche, sociologiche e culturali del caso ognuno di noi può provare a dare una risposta alla domanda “ma perché mai, nel 2019, i gusti sessuali di una persona possono essere oggetto di discussione (e discriminazione) da parte di altre persone?” “Perché non riusciamo a percepire i gusti sessuali e sentimentali proprio come percepiamo i gusti del gelato?”. 

 

“No ma io non sono mica omofobo eh!”

Nonostante finalmente la comunità LGBT+ inizia ad amalgamarsi con la società e a dover combattere battaglie meno dure (seppur ancora necessarie) per chiedere il rispetto dei propri diritti in quanto persone, la cultura è qualcosa di potentissimo e dominante. I valori culturali del nostro contesto di appartenenza ci influenzano in modo davvero forte e necessitano di molto tempo per cambiare in modo profondo. Il cambiamento è sicuramente iniziato, ma finché ci saranno episodi di questo tipo (per non parlare neanche degli episodi di violenza e bullismo) ciascuno di noi deve sentirsi responsabile per non stare veicolando il cambiamento nei limiti delle sue possibilità!  Essere “politically correct” oggi va molto di moda, la maggior parte delle persone soprattutto tra le generazioni più giovani ci tiene a specificare “no ma io non ho niente contro i gay, anzi! Ho un sacco di amici gay”. Ecco, questo non è sufficiente a promuovere il cambiamento di cui si parlava.  Finché si verificheranno episodi di discriminazione, odio, violenza, è un dovere civico e morale, specialmente per i più giovani, innnanzitutto fermarsi a riflettere in prima persona e in secondo luogo stimolare chi ci sta intorno a riflettere insieme a noi. 

 

Cosa non si può più accettare 

Nel 2018 a Budapest, Ungheria, sono stati cancellati 15 spettacoli teatrali all’Opera, in linea con un’aggressiva propaganda anti-gay secondo cui “Billy Elliot” spinge i ragazzi a diventare omosessuali. Senza uscire troppo dal nostro orticello, in Italia è stato stimato un numero di 20.000 persone l’anno che si rivolgono alla gay help line per discriminazioni, violenze e abusi perpetrati nei propri confronti in quanto gay. Un ragazzo di Napoli di 14 anni, sempre nel 2018, è stato affidato ai servizi sociali dopo aver chiesto aiuto a causa del fatto che i suoi genitori, dopo aver appreso del suo orientamento sessuale, lo torturavano gettandogli benzina sulle caviglie a cui poi davano fuoco, provocando ustioni.  Fortunatamente casi così gravi sono isolati e non ancora troppo frequenti, ma finché anche una sola persona non potrà esprimere il proprio orientamento sessuale come si esprime la preferenza per uno o per l’altro gelato, avremo di sicuro molta strada da fare. 

 

Pride: vedere fieramente il mondo a colori

Il simbolo del “Gay Pride”, di cui sicuramente avrete sentito parlare, è una bandiera a colori. Interrogarsi sul significato dei simboli aiuta sempre a capire qualcosa in più riguardo a ciò che ci circonda. La valenza di questo simbolo è duplice: da un lato richiama la bandiera mondiale simbolo della Pace, a indicare “l’innocuità” della comunità LGBT+ che chiede davvero una cosa estremamente “innocente”, ovvero come già detto il rispetto della loro libertà che, almeno in Italia secondo la nostra costituzione, dovrebbe essere garantito ad ogni cittadino e cittadina in quanto persona. Anche i modi di chiedere il rispetto dei diritti sono estremamente pacifici, con manifestazioni non violente e campagne di sensibilizzazione. Il secondo aspetto del simbolo del pride è forse più su libera interpretazione: la bandiera colorata. Di sicuro i vari colori rappresentano la diversità, ai nostri occhi rappresentano la bellissima e vivace diversità che colora il mondo e lo rende un posto unico, meraviglioso, irripetibile (proprio come ogni singolo individuo) in cui ognuno è libero di dare il suo contributo, libero di seguire la propria natura e i propri “gusti”, libero di dare la sua personalissima pennellata di colore. La diversità è colore e la comunità LGBT+ l’ha capito bene, molto prima di tutto il resto del mondo, ed è molto fiera (pride appunto) di condividere questo messaggio con chi ancora non ci è arrivato. 

Le persone LGBT+ nello sport

Quanto sono riconosciute le persone LGBT+ nello sport?

La European Gay Lesbian Sport Federation (EGLSF) è la prima organizzazione internazionale, con sede ad Amsterdam, che a livello europeo promuove all’interno del mondo sportivo la visibilità delle persone LBGT+. Si occupa infatti di coordinare gruppi sportivi e di organizzare eventi a livello continentale come gli Eurogames. Perché esiste un’organizzazione del genere? Il motivo è ovvio: nel mondo dello sport non c’è una presenza accettata e riconosciuta di persone LGBT+. Ciò si nota, ad esempio, dallo scalpore che suscitano i coming out di noti personaggi sportivi. Le testate giornalistiche, in ogni parte del mondo, trattano la notizia del coming out degli sportivi come una notizia sensazionale, che deve necessariamente suscitare un enorme “scandalo”, anche quando gli stessi sportivi la trattano con estrema naturalezza e semplicità. Un esempio? Paola Egonu è una bravissima pallavolista classe ’98 della nazionale italiana che, a seguito di una sconfitta nel campionato mondiale 2018 ad un giornalista che le chiedeva “Come hai affrontato la delusione della sconfitta?” ha risposto con tutta la naturalezza del caso: “Ho chiamato la mia ragazza che mi ha consolata”. Il giornale non ha mancato di gestire la notizia come se fosse una rivelazione shock. Ma per quale motivo suscita così tanto scalpore tutt’oggi, in Italia in particolar modo, che gli sportivi facciano coming out?

 

LGBT+ nel mondo del calcio: un connubio possibile?

In alcuni sport più che in altri si nota una forte resistenza nei confronti della comunità LGBT+. Prendiamo ad esempio lo sport più diffuso e seguito a livello mondiale ma specialmente italiano: il calcio. Riusciamo a pensare ad un calciatore italiano gay? Probabilmente no. È plausibile pensare che, su circa 1000 uomini calciatori agonisti nel nostro paese (calcolato facilmente con una semplice moltiplicazione di numero di squadre di serie A e B, 40 circa, per numero di giocatori a squadra, 25 circa), nessuno di questi sia gay, trans, bisessuale o asessuale? Non è facile dare una spiegazione a questo fenomeno, però il calciatore “tipo” nell’immaginario collettivo incarna lo stereotipo di uomo con le caratteristiche di virilità e forza, caratteristiche opposte allo stereotipo di omosessuale (effeminatezza e fragilità). Anche la questione dello spogliatoio citata dal calciatore non è da sottovalutare: in un ambiente di quel tipo gli uomini scherzano molto con la sessualità, denigrando di fatto la sessualità tra uomini; è comprensibile quanto una persona omosessuale possa sentirsi scoraggiata al coming out e non voglia esporsi al rischio di venire emarginata dalla sua squadra. La coesione tra i compagni di squadra, infatti, è cruciale per avere delle alte performance. Insomma, il mondo del calcio, non è difficile dirlo, è più omofobo rispetto ad altri ambiti sportivi. Anzi, specifichiamo: il mondo del calcio maschile. Nel mondo del calcio femminile, infatti, le calciatrici omosessuali non fanno scalpore, sono molte e le persone lo ritengono quasi ovvio: “se gioca a calcio ovvio che sia lesbica” (usato purtroppo spesso in senso denigratorio). Si tratta, in realtà, di uno stereotipo: così come il calciatore è “sicuramente” eterosessuale, la calciatrice è “sicuramente” lesbica. Non è certamente sempre così. Questi stereotipi confermano quanto detto appena prima: il calcio nell’immaginario comune è (purtroppo) sport da uomo, da “uomo vero”. 

 

Lo sport non è solo una questione di fisico

Uscendo dallo specifico ambito del mondo calcistico, non abbiamo di fatto trovato risposta alla domanda “Perché il coming out degli sportivi suscita, in genere, scalpore?”. Infatti, si è parlato del perché nel mondo del calcio il coming out non esista proprio, ma questo non è generalizzabile ad altri sport. Sono molti a livello mondiale gli sportivi che hanno dichiarato la propria omosessualità o il proprio transgenderismo (più a livello mondiale che a livello italiano nello specifico): pallavolo, pallamano, basket, tennis, atletica, nuoto, tuffi, ginnastica artistica, etc. 

La diversità LGBT in ambito sportivo è considerata ricchezza? Valore? Forse, non proprio. Se nel mondo lavorativo negli ultimi anni le politiche di diversity management sono sempre più orientate a valorizzare la diversità delle persone è perché ci si è resi conto che, in quell’ambito, la diversità è ricchezza. Nel lavoro, infatti, la persona che sta dietro il ruolo è cruciale per ottenere un’alta performance. Nello sport vale lo stesso? C’è in realtà l’opinione, molto diffusa, che a prescindere dallo sport a cui ci si riferisce ciò che sia importante è la prestazione fisica di per sé. Tutti gli sportivi sanno, però, che la componente mentale e psicologica è cruciale in qualunque sport, sia individuale che di squadra. Perché allora non si considera che nello sport, proprio come nel lavoro, la diversità può essere ricchezza? 

Questo potrebbe essere, infatti, sereno ed onesto con sé stesso; di conseguenza avrà la mente libera da altre preoccupazioni per potersi concentrare sulla sua performance, in altre parole potrà dare il massimo. Purtroppo, ancora oggi la diversità LGBT nello sport non solo non è valorizzata, è non considerata, come se non esistesse. È per questo motivo che nel momento in cui si presenta i giornali (e le persone di conseguenza) trattano questo elemento come qualcosa che “fa notizia”. Ci sono, però, alcune realtà milanesi che tengono particolarmente alla rappresentazione delle persone LGBT+ nello sport, come Gate Volley Milano, Rainbowling Milano e Pride Sport Milano (propone pallacanestro, yoga, ciclismo e nuoto), in cui potrete trovare riconoscimento e…divertimento!

Disforia di genere

Chiamatemi Lili

Copenaghen, anni 20 del secolo scorso. Una coppia sposata di artisti, Einar e Gerda Wegener, vede sconvolti i propri equilibri quando Einar, inizia a vestirsi da donna traendone un enorme soddisfazione e benessere psicologico. Inizialmente la moglie è sconvolta da questa “novità” del marito, rifiutandola, ma nel momento in cui si rende conto che è un bisogno, una necessità per la persona con cui condivide la vita, accompagna Einar in un difficilissimo percorso che lo porta a diventare Lili Elbe. Nel 1930 il percorso ha il suo culmine con l’intervento chirurgico con cui Einar smette di essere biologicamente uomo e tramite la rimozione dei testicoli inizia la sua definitiva transizione in donna. Considerata l’epoca storica non vi stupirà sapere che il caso attirò enormemente l’attenzione pubblica, tanto da diventare oggetto di romanzi e film fino ai giorni nostri. Vi suonava familiare questa storia, non è vero? Molto probabilmente avrete visto o sentito parlare del film “The Danish girl”, nelle sale Italiane nel 2016, che con l’interpretazione magistrale di Eddie Redmayne racconta questa vicenda realmente accaduta che possiamo a tutti gli effetti definire storica.  L’evento storico è, chiaramente, il primo intervento chirurgico di cambio sesso, la rimozione dei testicoli. Lili ebbe però “fretta” di diventare definitivamente donna e si sottopose dopo poco ad una vaginoplastica che le fu fatale. Sappiamo che le etichette non possono riassumere la complessità dell’essere umano, ma quando si ha molta confusione riguardo a degli argomenti ancora molto poco conosciuti possono essere utili a fare chiarezza…quindi: sapreste definire il problema di Einar/Lili, dargli un nome? Siamo sicuri che moltissimi definirebbero Lili un travestito (fino a prima dell’intervento), altri forse omosessuale, molti probabilmente transessuale. Chi avrebbe ragione?

 

Disforia di genere

Una persona che si sottopone a un intervento chirurgico, più varie cure e procedure ormonali, al fine di cambiare sesso è una persona transessuale. È bene specificare che non tutte le persone transessuali sentono la necessità di sottoporsi all’intervento di transizione, modificando i propri genitali, anzi! Moltissimi si identificano con il sesso opposto a quello biologico di appartenenza ma non si sottopongono mai all’intervento. Ciò dovrebbe farci riflettere molto: siamo abituati nella nostra società ad associare automaticamente ed inevitabilmente il sesso biologico con l’identità di genere. Il sesso biologico è quello che ci viene assegnato alla nascita sulla base del nostro corpo e in particolare dei nostri genitali. L’identità di genere è il sesso con cui la persona si identifica, in cui si riconosce. Nel momento in cui una persona nasce con un determinato sesso biologico (es maschio) ma si identifica con il sesso opposto (quindi femmina) si ha un disturbo psicologico ben preciso: la disforia di genere. Essendo un disturbo comporta chiaramente un disagio, disagio così intenso che porta addirittura a sottoporsi a un intervento molto doloroso e sicuramente non esente da rischi, oltre che a cure ormonali molto pesanti per il corpo, per il cambio di sesso. È il caso di Lili, la Danish Girl che trova il coraggio di esprimere liberamente chi è solo in età adulta. La disforia di genere però non “arriva” da un momento all’altro, come può arrivare una depressione: a differenza di moltissimi altri disturbi che possono manifestarsi in qualunque momento della vita, l’insorgenza è estremamente precoce, si ha quindi già da bambini. Chiaramente da piccoli non si ha ancora una consapevolezza tale da esperire un intenso disagio, requisito indispensabile per diagnosticare il disturbo, ma molto presto i bambini sono esposti ai tradizionali ruoli di genere, che abbinano determinate caratteristiche al maschile e altre al femminile. Un bambino quindi capisce molto presto cosa la società si aspetta da lui, attribuendo il ruolo di genere sulla base del sesso biologico ma senza minimamente considerare l’identità di genere. È così che una persona, anche se in età molto precoce, vive un disagio intenso dato dalla discrepanza tra richieste e aspettative della società, quello che il suo corpo gli impone e quello che sente dentro di sé, nella mente e nel cuore. 

 

L’apparenza inganna… ma a volte lo dimentichiamo

“Non giudicare un libro dalla copertina”, “l’apparenza inganna”. Quanta verità si cela a volte nei banali detti popolari. Sappiamo per esperienza personale che l’esterno non sempre corrisponde all’interno, che ciò che noi vediamo può ingannarci. Pensiamo banalmente di andare a comprare la frutta: sulla base di cosa la scegliamo? Quella “più bella”, ovvio. Per decidere quali mele comprare sicuramente ci orienteremo verso quelle più rosse, più grandi, senza ammaccature. Quante volte vi è capitato di aprire queste mele perfette fuori e trovarci il vermicello dentro? O che non sapessero proprio di nulla perché piene di pesticidi e sostanze chimiche varie? Ma d’altronde si sa…l’apparenza inganna! Come mai allora sembriamo dimenticarlo quando ci arroghiamo il diritto di giudicare una persona e il suo orientamento sessuale e soprattutto identità di genere basandoci su ciò che vediamo? Perché nel vedere un bambino in atteggiamenti “femminili” pensiamo subito che da grande sarà gay e non ci sfiora nemmeno per un attimo che la sua identità di genere possa essere diversa dal sesso biologico? Perché valutiamo solo ciò che possiamo vedere, il sesso biologico, e non ciò che non possiamo, l’identità di genere? Siamo, purtroppo, ancora enormemente influenzati dagli stereotipi sociali di genere che hanno dominato per secoli, ma che (concedeteci l’eufemismo) iniziano a puzzare di vecchio (o puzzare di mela marcia). Come vedrete però siamo in vena di porvi domande a cui non possiamo darvi ancora risposte ben precise, eccone un’altra: perché, ci stupiamo molto di più a vedere un bambino in atteggiamenti femminili e non una bambina in atteggiamenti maschili? In ogni famiglia, classe delle scuole elementari, squadra di nuoto, c’è quasi sempre la bambina che è denominata da tutti “un maschiaccio”. È comune, ma è per questo che non ci stupiamo? Assolutamente no. La nostra ipotesi è che per la società sia più accettabile che una donna aspiri a essere come un uomo piuttosto che il contrario…ah il sessismo…che brutta erbaccia difficile da estirpare! Ma questa è un’altra storia, coinvolta però indubbiamente nella disforia di genere.  

 

Lasciatemi liber* di essere chi sono

La disforia di genere è, quindi, un disturbo determinato dalla marcata incongruenza percepita tra il genere biologico assegnato alla nascita e quello soggettivamente esperito. Si ha un forte desiderio di appartenere al sesso opposto che si manifesta specie nei bambini con una insistenza nel volersi atteggiare e vestire come le persone del sesso opposto. La sofferenza esperita è notevole. Da cosa deriva questa sofferenza? Sicuramente dall’impotenza, rabbia e frustrazione che una persona può sperimentare a causa del fatto che è nata “in un corpo sbagliato”. Siamo sicuri che sia tutto qui? Vorremmo raccontarvi la storia raccontata da fanpage.it (link al video in bibliografia) di Lori, bambina che quando viveva in Italia era scritta sul registro di classe e all’anagrafe con il nome di Lorenzo. La mamma di Lori non ha mai ostacolato la vera “natura” di sua figlia, assecondando il suo bisogno e desiderio di essere una femmina. Lori e la mamma vivono adesso a Valencia, dove il clima culturale nei confronti della comunità LGBT è molto più di apertura rispetto che in Italia, quindi in classe le amichette di Lori non si sono stupite dal sapere che una volta era un maschio, grazie anche alle spiegazioni prive di stereotipi che hanno saputo dare i loro genitori. Lori è una bambina transgender, non ha subito alcun intervento di cambio sesso (d’altronde è troppo piccola, forse lo farà in futuro, forse no) ma questo non deve interessarci; ciò che davvero ci interessa è che Lori è una bambina felice. Non soffre per essere nata biologicamente maschio, si comporta come si sente, è libera di essere ciò che si sente di essere (grazie alla famiglia e alla società). Lori potrebbe rientrare nella categoria di disforia di genere? Secondo i criteri diagnostici, le mere etichette forse si; secondo il buon senso che ogni psicologo deve avere no, Lori non soffre, non ha un problema. È con l’ultima domanda quindi, che vogliamo lasciarvi a pensare: certo, le etichette a volte chiariscono ciò che non conosciamo (esempio distinzione tra sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, ruolo di genere) ma non credete che, a volte, confondono e rendono complesse situazioni più semplici di ciò che immaginiamo?