Essere trans in azienda:
come muoversi?

Essere transgender VS essere transessuale: non facciamo confusione

La persona transgender è una persona che può provare disagio nei riguardi del proprio sesso biologico, non conforme alla sua identità di genere. L’identità di genere è infatti il senso intimo di appartenenza ad un genere: le persone transgender sentono di appartenere ad un genere diverso rispetto a quello definito dai loro genitali e caratteri sessuali secondari, che determinano, appunto, il sesso biologico. 

Sfatiamo un mito: la disforia, cioè il disagio che potrebbero percepire, potrebbe non essere rivolta a tutte le parti del proprio corpo che riconducono al sesso biologico, come i genitali o le zone erogene, ma solo ad alcune o nessuna. Non è, quindi, sempre vero che le persone trans si sentono “intrappolate in un corpo che non gli appartiene”: i vissuti non sono univoci. Per questi motivi, alcune persone trans potrebbero decidere di intraprendere un processo di transizione per “spostarsi” verso lo spettro di genere a cui percepiscono di appartenere.  Nella maggior parte dei casi si sottopongono a cure ormonali e vestono abiti conformi alla loro identità di genere. Alcune persone desiderano ricorrere anche ad interventi chirurgici di riassegnazione del sesso biologico. Alcune di queste ultime persone, potrebbero autodefinirsi transessualiÈ importante ricordare che non bisogna generalizzare: alcune persone si definiscono transgender e altre transessuali. Quello che è importante rispettare sono le parole e le modalità secondo cui la persona si autodefinisce.

 

Discriminare le persone transgender: non riconoscerle per chi sono davvero

I vissuti emotivi e psicologici di una persona trans potrebbero essere molto forti e impegnativi.  Il transgenderismo è, infatti, ancora oggi una delle condizioni più difficili da accettare per chi non la vive in prima persona: in moltissimi ambienti le persone quotidianamente non riescono a immedesimarsi nelle persone trans, stupendosi, ad esempio, se negli spogliatoi delle palestre si trovano a tu per tu con una persona transgender, con un corpo che non si aspetterebbero di trovare. 

Nel contesto di lavoro? La situazione è forse ancora più delicata: l’identità sessuale di una persona non dovrebbe in alcun modo essere motivo di stress lavoro correlato oppure di burn out nei casi peggiori. Purtroppo spesso non è così: nonostante la persona transgender spesso voglia e cerchi di tutelare la sua privacy riguardo all’essere trans, può capitare che i colleghi, capi e clienti, potrebbero farle outing e, successivamente, giudicarla negativamente per una sua caratteristica intima e privata, come l’identità di genere, un aspetto certamente che nulla ha a che fare con la professionalità.

Il problema, spessissimo, è che le stesse aziende, pur con le migliori intenzioni, non sanno come poter supportare nel concreto i loro lavoratori transgender. In realtà, si potrebbe anche partire da aspetti apparentemente banali ma, in realtà molto significativi come ad esempio utilizzare il pronome corretto, rivolgersi ad una persona transgender con il genere che preferisce. E’ importante ricordare che la persona ha tutto il diritto di essere chiamata con il genere che preferisce,  indipendentemente da se abbia o no avviato un processo di transizione.  Quanto ci disturba, quando una persona (assolutamente in buona fede) si ricorda male il nostro nome o storpia la pronuncia? Per le persone transgender questo accade quotidianamente, ed è più grave del semplice “non ricordarsi”, perché è un intenzionale rifiutarsi di riconoscere l’identità di genere dell’altro.

 

Qualche esempio concreto da utilizzare in azienda

Il pronome con cui ci si rivolge alle persone in transizione è solo un esempio, ma si potrebbe pensare a molti altri. Prima di tutto, bisogna porre attenzione già dal primo momento, ossia il primo colloquio. E’ un momento molto rischioso: sul CV del candidat* potrebbe essere indicata la sua identità di genere e, sulla carta d’identità potrebbe ancora essere presente il dead name e, quindi, il riferimento al sesso biologico. 

Gestire questa “incongruenza” con tatto e delicatezza è fondamentale: ci si può trovare spiazzati e non sapere come reagire, ma bisogna cercare di non porre domande per indagare meglio la condizione privata del candidato, in quanto non solo viola la sua privacy e sensibilità, ma anche la legge per cui sono vietate indagini su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore (art. 8 dello statuto dei lavoratori). Una volta inserita la persona nell’ambiente lavorativo, bisogna quanto più farla sentire a proprio agio, come ad esempio al momento dell’uso dei bagni e degli spogliatoi: andrebbe garantito l’accesso alle persone transgender al bagno/spogliatoio conforme al genere a cui sente di appartenere, non a quello biologico.

Importantissimo è anche porre attenzione al nome con lui la persona vuole essere chiamata e non menzionare mai il dead name (il nome assegnato alla nascita che potrebbe non essere più riconosciuto dalla persona trans come proprio). Può sembrare un gesto semplice, ma può aiutare moltissimo le persone trans a non sentirsi discriminate.  I diritti dei lavoratori LGBT+, tra cui figurano, appunto, anche le persone transgender, sono via via sempre più riconosciuti e tutelati dalle aziende, bisogna però non fermarsi alla teoria e ricordarsi sempre che bisogna mettere in pratica.

Diversity Management

Perché nasce il diversity management 

Il diversity management nasce nel contesto statunitense negli anni ’80-’90 del secolo scorso quando, alcune importanti aziende, iniziarono a rendersi conto di tutto il potenziale che andava sprecato a causa della discriminazione di persone appartenenti a delle minoranze sociali.  Nasce infatti nel contesto delle risorse umane e ha come obiettivo di “gestire” la diversità delle persone per poterne valorizzare le capacità e le risorse intrinseche, riconoscendo il valore di ogni singola persona proprio nel fatto che è diversa dalle altre. Bisogna puntualizzare come, il diversity management si sviluppi a partire dalla pratica dell’equal employment opportunity (EEO), anche questa presente negli USA negli stessi anni. 

Il diversity management nasce infatti per “sopperire” ad alcune mancanze delle EEO che sebbene avessero il nobile intento di favorire l’uguaglianza, o meglio l’equità, per tutti i lavoratori, a livello pratico erano molto poco attrattive per le aziende se non addirittura degli ostacoli. Le EEO hanno infatti due caratteristiche molto importanti: la loro adozione è imposta per legge; la loro giustificazione non considera l’aspetto economico. 

Al contrario, il diversity management è adottato dalle aziende su base volontaria infatti esistono le così dette “soft law”, dei provvedimenti non coercitivi, che si limitano a incentivare le imprese ad adottare pratiche inclusive rispetto alle minoranze (come la “strategia nazionale LGBT” che le aziende Italiane hanno adottato nel 2012), ma le aziende non sono obbligate ad alcune pratiche di equal employment. Al contrario, scelgono di sposare volontariamente il diversity management. Lo scelgono anche, e forse specialmente, in ragione del secondo punto: a differenza delle EEO, il diversity management trova giustificazione sul piano economico, nasce cioè con l’obiettivo, tra gli altri, di ottenere dei vantaggi economici.

Quali sono i vantaggi del diversity management?

Il diversity management, il considerare la diversità dei singoli un valore all’interno delle aziende, nasce da esigenze esterne. Infatti, i cambiamenti demografici della società del mondo moderno, dati da moltissimi fattori tra cui in primis la globalizzazione, portano ad un’eterogeneità della popolazione nelle nazioni più sviluppate e hanno imposto alle aziende di riconoscere che la forza lavoro è molto più variegata rispetto al passato. Da quella che è quindi una necessità imposta da fattori “incontrollabili”, le aziende americane hanno per prime ricavato un’opportunità di business: valorizzare la differenza per aumentare i profitti. Questo è forse il vantaggio maggiore dell’adottare il diversity management, ma non il solo. Il vantaggio è per i lavoratori, che sentendosi riconosciuti nella loro individualità e potenzialità, sperimentano una maggiore soddisfazione lavorativa e, di conseguenza, vivono il contesto lavorativo in modo molto positivo e sereno andando quindi a incidere positivamente sulla produttività

Le aziende, conseguentemente, ne ricavano vantaggi economici: grazie al clima aziendale che riescono a creare e grazie al benessere dei propri lavoratori aumentano il loro fatturato. Il vantaggio per le aziende non è solo economico di per sé, è anche reputazionale: incentrandosi sul diversity management infatti si sposa una vera e propria filosofia, un’etica nei confronti dei lavoratori e del loro benessere, diventando così attrattivi sul mercato sia per i lavoratori sia per la clientela.  L’ultimo vantaggio, chiaramente interconnesso agli altri, è del mercato in generale e quindi del mondo lavorativo. Il mercato è molto dinamico, deve adattarsi alle epoche e ai cambiamenti storici e sociali; ciò che è stato fatto con il diversity management ha permesso al mondo del lavoro di adattarsi alle persone di oggi e alle loro esigenze, non imponendo al contrario alle persone di doversi adattare al lavoro. Questo modello è, infatti, diventato un esempio per moltissimi altri paesi che nel corso degli anni lo hanno adottato, chi più velocemente, chi meno.   In conclusione, è importante formulare una riflessione. Il diversity management si focalizza sull’individuo, trascurando però un aspetto molto importante: l’individuo è immerso, e fa parte, del gruppo aziendale. Risulta necessario un terzo step, dopo le EEO e il diversity management, che possa tener conto sia della complessità dell’individuo, sia del fatto che fa parte di un gruppo, sia delle necessità economiche aziendali. 

Diversity & Inclusion:
la soluzione per le persone
e le aziende?

Diversity & Inclusion: come ci si è arrivati?

La diversity e inclusion (D&I) è il terzo approccio che si è sviluppato, come evoluzione del diversity management, prima negli Stati Uniti e a seguire nel resto del mondo. Ha come obiettivo molto generico di superare la discriminazione delle minoranze nei contesti di lavoro grazie soprattutto alla valorizzazione, invece, delle differenze. 

Per capire bene di cosa si tratta bisogna prima accennare agli altri due approcci precedenti, a seguito del quale di sviluppa la D&I: equality employment opportunity (EEO) e diversity management (DM). Il primo tipo di approccio è mirato all’equità delle persone a lavoro, o meglio dei gruppi di persone a lavoro: partendo infatti dal presupposto che le minoranze sono discriminate, l’EEO introduce una serie di misure imposte per legge alle aziende volte ad eliminare queste discriminazioni, offrendo ai gruppi minoritari (donne, gruppi etnici minoritari, persone LGBT+, disabili, etc.) delle risorse in più, in modo da arrivare alle pari opportunità. Il difetto forse maggiore delle EEO è quello di non considerare, nella loro applicazione pratica, il risvolto economico, infatti la loro giustificazione è “solo” morale. 

A ciò sopperisce il DM che nasce e si sviluppa con lo specifico obiettivo di coniugare le esigenze morali e le pari opportunità ai modelli di business delle aziende, per avere ricadute positive sui profitti. Il passaggio più grande che si fa dalle EEO al DM è quello di passare da un’ottica “per gruppi” ad un’ottica “per singoli”: le pari opportunità promosse dalle EEO considerano le necessità delle persone in quanto appartenenti a dei gruppi minoritari, hanno come obiettivo la parità tra i diversi gruppi; il DM invece valorizza e promuove la diversità dei singoli, delle persone in sé stesse, non in quanto appartenenti a un gruppo. Questa distinzione è cruciale, in quanto la D&I si colloca nel mezzo tra i due approcci, mantenendo l’ottica sia sul gruppo che sul singolo

 

Diversity & Inclusion: l’azienda come Gestalt

L’obiettivo primario della D&I è quello di creare un luogo di lavoro in cui ogni persona si senta valorizzata per il proprio potenziale e per la propria diversità rispetto a tutti gli altri, in cui si senta quindi “unica”, ma al contempo un luogo di lavoro in cui ogni singolo si senta profondamente appartenente al gruppo “organizzazione”, sposandone gli obiettivi e sentendosi pienamente a proprio agio con il clima aziendale. 

È proprio in questo che la D&I si colloca a metà tra EEO e DM (anche se, lo ricordiamo, è un’evoluzione del DM): valorizza il singolo ma valorizza al contempo l’importanza di sentirsi parte di un unico grande gruppo che è l’organizzazione, al cui interno non esiste più una suddivisione tra minoranze e maggioranza, ma esistono tanti singoli che insieme fanno un’azienda.  Si potrebbe fare un parallelo tra la D&I e la psicologia della Gestalt: il concetto riassuntivo della gestalt è che “il tutto è diverso dalla somma delle singole parti”, per la gestalt, infatti, il tutto è un concetto complesso, ampio e unitario, dinamico ma organico, proprio come lo è un’azienda. 

Le singole parti, i singoli dipendenti di un’azienda, messi insieme creano l’organizzazione che, però, non può essere considerata “semplicemente” come l’insieme dei suoi dipendenti, proprio perché i singoli dipendenti apportano all’organizzazione un contributo unico e speciale in virtù della loro diversità gli uni dagli altri. Questa diversità, paradossalmente, non emergerebbe se non esistesse un gruppo di riferimento di cui sentirsi parte; si capisce quindi perché l’azienda (il tutto) è più della somma dei singoli dipendenti e delle loro caratteristiche; è l’azienda, il gruppo, che dà opportunità ai singoli di svilupparsi ed esprimere il loro potenziale, unico e irripetibile. È proprio questo che si intende con valorizzare la diversità (obiettivo già del diversity management) mantenendo in più il sentirsi parte dell’organizzazione, del gruppo, un valore fondamentale.

 

Inclusion: ma, quindi, cosa si intende?

L’ambizione della diversity e inclusion, quindi, è la creazione di un luogo di lavoro in cui tutte le differenze sono rappresentate e rispettate; al centro si mette il benessere del lavoratore, promosso tramite il senso di appartenenza all’azienda, la qualità dell’esperienza di lavoro e la possibilità di contribuire attivamente alla messa a punto e alla realizzazione degli obiettivi organizzativi. È quindi un atteggiamento molto complesso in cui si rispettano le diverse identità dei singoli grazie all’esistenza di una “macro-identità” aziendale in cui rispecchiarsi e sentirsi riconosciuti. 

Il termine inclusione, pensando a come è usato nella quotidianità, risulta quindi forse fuorviante a chi sviscera i significati delle parole: includere può dare l’idea di una parte attiva che include e una passiva che è inclusa, può dare l’idea di una “concessione” che permette a chi stava al di fuori di qualcosa, di un gruppo, di entrarvi. Includere può essere considerato in quest’ottica come sinonimo di inglobare; in effetti, non è una descrizione difforme da ciò che accade nelle aziende che adottano la diversity e inclusion. Inglobare qualcosa (o qualcuno), includerlo in un gruppo, è un’azione, in realtà, attiva da ambe le parti: la parte che “si apre” ad includere compie un movimento, così come la parte che è inclusa e inglobata, poiché ci si aspetta da essa che apporti un cambiamento (migliorativo). 

Una domanda che può sorgere spontanea è: come posso mettere in pratica questo approccio nella mia azienda? Uno psicologo esperto di D&I potrebbe giungere in aiuto e favorire l’adozione di questo approccio nella propria realtà. Si può arrivare, insieme, ad essere consapevoli di cosa sia la D&I, degli indubbi vantaggi che comporta per tutti sul mercato del lavoro e a capire quali possono essere gli strumenti per metterla in atto.

Equal Employment
Opportunities:
equità o uguaglianza?

Definito come il principio per cui tutte le persone dovrebbero avere le stesse opportunità nella domanda di lavoro senza essere trattate ingiustamente per le loro caratteristiche individuali come età, sesso, razza, religione, orientamento sessuale, etc. 

Avere le stesse opportunità…si tratta di uguaglianza o equità? 

I due concetti sono, infatti, differenti: l’uguaglianza implica la distribuzione di pari risorse a tutti, indipendentemente dalle loro caratteristiche individuali; l’equità invece implica la distribuzione di risorse variegata in base alle caratteristiche individuali di ciascuno per cui chi parte da un punto più svantaggiato, con meno risorse in partenza, riceverà di più. 

Tornando alla definizione di EEO, dobbiamo capire cosa si intenda per pari opportunità. Sebbene molti libri traducano il concetto di EEO con la parola uguaglianza, sarebbe più corretto usare il concetto di equità: le EEO si riferiscono infatti, insieme alla Affirmative Actions (AA) a degli obblighi legislativi nei confronti delle aziende, basati sul dovere morale di favorire equità in termini di accesso al lavoro. Tutti, indipendentemente dalle caratteristiche individuali devono poter raggiungere gli stessi obiettivi, la stessa “visuale”, quindi bisogna dare più strumenti a chi parte “svantaggiato”. 

 

Funziona l’equità EEO nel mondo del business? 

L’idea alla base delle EEO è quindi quella di favorire l’integrazione delle minoranze nel mondo del lavoro, realizzata grazie alla trasposizione pratica tramite le AA (affirmative actions).  Come? Imponendo, tramite degli obblighi legali, alle aziende di considerare le minoranze in quanto tali e di conseguenza di prestarvi maggiore attenzione. Secondo il principio di equità, infatti, dato che le minoranze partono svantaggiate a causa di un’ideologia per troppo tempo dominante che ha favorito sempre e solo una classe sociale (maschio, occidentale, istruito, status socio-economico elevato, eterosessuale), le risorse da dare loro in partenza sono maggiori rispetto a chiunque altro. 

Da questa idea deriva, ad esempio, il concetto di quote rosa: a partire dal 2012, nel nostro paese, la legge impone alle aziende quotate e alle società a partecipazione pubblica che i CdA (consigli di amministrazione) siano composti almeno per un quinto da donne. Provvedimenti di questo tipo, che in Italia hanno tardato ad arrivare, esistono da molto prima negli USA e sono stati fonte di acceso dibattito. Per i sostenitori delle EEO e delle AA l’imposizione legislativa si rende necessaria affinché il tema dell’inclusione diventi un punto centrale di interesse per i datori di lavoro.

 

Quali sono le implicazioni psicologiche delle EEO?

Le EEO si promettono di offrire rappresentanza alle persone appartenenti a minoranze: religiose, culturali oppure per l’identità sessuale. Ciò può avere delle conseguenze positive sulle persone che presentano una qualsiasi diversità: spesso, sono abituate a trattamenti ineguali, discriminazioni e invalidazioni quotidiane, sia nel mondo del lavoro che in quello personale. Affacciarsi, invece, al mondo del lavoro sapendo che esistono delle realtà che mettono in pratica le EEO può far sentire protetti e maggiormente considerati, indipendentemente dalla diversità che è propria.

Coming out a lavoro

Coming out, cioè “Uscire allo scoperto” 

Immaginiamo che, in un giorno qualunque di lavoro in ufficio, il collega seduto alla scrivania di fronte a noi richiami l’attenzione di tutti per comunicare, “ufficialmente” e solennemente il suo orientamento sessuale: “Cari colleghi, io sono gay!”. Sembra forse più una scena da film che un episodio di vita reale, quasi grottesca se contestualizzata alla quotidianità. È molto difficile, infatti, che il coming out sul luogo di lavoro, o in generale in altri contesti di vita, avvenga in questo modo. Coming out significa letteralmente “venire fuori, uscire allo scoperto” e proviene dall’espressione “coming out of the closet”, cioè uscire dall’armadio, svelando la propria identità sessuale.

Le parole sono sempre importanti: nella nostra cultura e nella nostra società, implicitamente, si assume che chi dichiara la propria omosessualità abbia un segreto da custodire e finalmente decide di rivelarlo. In realtà, se non esistesse discriminazione verso le persone con un’identità sessuale non maggioritaria, fare coming out non sarebbe considerata come sopracitato. In Italia oggi, le politiche antidiscriminatorie e attente a tematiche LGBT+ nelle aziende non costituiscono la norma, ma un “vanto”, qualcosa su cui l’azienda può fare leva per sottolineare la propria apertura. 

 

Perché può essere importante fare coming out sul lavoro?

Moltissimi sono gli studi e le pubblicazioni scientifiche che sostengono che un benessere a 360° del lavoratore abbia benefici sull’attività lavorativa, aumentando in modo indiretto la produttività e gli utili delle aziende. Il meccanismo non è difficile da intuire: una persona che sul luogo di lavoro è serena, sotto ogni punto di vista, lavorerà meglio. È molto probabile, quindi che una persona abbia l’esigenza di condividere con i colleghi con cui lavora a stretto contatto e al proprio capo il proprio orientamento sessuale, per accertarsi che non sia qualcosa che possa intaccare la serenità di tutti, i rapporti tra i lavoratori e in generale il clima lavorativo.  Nonostante ciò il coming out è una scelta personale, nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a fare coming out sul luogo di lavoro. L’orientamento sessuale, infatti, non può e non deve incidere in alcun modo in nessun tipo di lavoro e di mansione, è una dimensione privata e intima che esula dall’attività lavorativa.

 

Come si può fare coming out sul lavoro?

Prendere la decisione di fare coming out sul lavoro può essere complesso e diverse sono le variabili da tenere in considerazione. Innanzitutto, è importante ascoltarsi: è il momento giusto? Mi sento pront*? Sento che l’ambiente di lavoro è pronto per accogliere le mie parole? Non esiste un momento perfetto per decidere di farlo, esiste solo il tuo momento, quello in cui ti senti a tuo agio nel parlarne.  

Poi, è importante valutare il tuo ambiente lavorativo. Chiediti come pensi che potrebbero reagire al tuo coming out. Ti aspetti un trattamento lavorativo uguale a prima o diverso dopo il coming out? Se il clima aziendale è positivo, questo può essere un aspetto che tende a facilitare il processo, in quanto si può percepire una maggiore sicurezza psicologica. Fondamentale è anche il tuo rapporto con i colleghi: percepisci da parte loro ostilità o, al contrario, appoggio? Potrebbe, nell’ultimo caso, essere un’opzione quella di iniziare a parlarne con i colleghi più fidati e che potrebbero accogliere meglio il tuo coming out.  Compiere il processo del coming out per gradi potrebbe essere un grande aiuto a rispettare i tuoi tempi. E’ importante tenere a mente queste variabili in quanto fare coming out su un luogo di lavoro non supportivo potrebbe, al contrario, peggiorare la qualità del proprio vissuto lavorativo. 

Cosa fare se si ha subito
outing a lavoro?

Cosa può succedere se un collega ti fa outing?

L’outing consiste nel rivelare l’omosessualità di un’altra persona senza il suo consenso. Una persona che “fa” outing, quindi, in realtà lo subisce perché non è un gesto che deriva dalla propria consapevolezza e volontà, come lo è invece il coming out, ma deriva invece dalle azioni (più o meno coscienti) di un’altra persona. 

Può accadere che l’outing accada in ambito lavorativo e ciò può essere davvero destabilizzante e doloroso. In primis, si può percepire una forte violazione della propria intimità e riservatezza. Rivelare il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere senza il proprio consenso significa portare sul lavoro degli aspetti molto personali, che nulla hanno a che fare con la propria attività lavorativa.

 

Due “tipologie” di outing

La prima “tipologia” di outing avviene quando una persona, sapendo che l’omosessualità di un/a collega è “segreta” decide consapevolmente di rivelarla ad altri colleghi o al capo, nella sua ottica per nuocere all’immagine di questa seconda persona. Si tratta, quindi, di un gesto che ha un intento malevolo. Non è infrequente, purtroppo, che l’outing porti, in seguito, a discriminazioni velate e indirette come l’impossibilità di progressione di carriera o più dirette come il licenziamento.  In questa particolare situazione, l’outing è quindi assimilabile al mobbing, cioè un comportamento abusante, aggressivo e volto ad arrecare un danno. L’intenzione di nuocere rende questa tipologia di outing davvero molto dolorosa per la persona che la subisce e forti possono essere le conseguenze in ambito lavorativo: difficoltà a interagire e collaborare con i colleghi spesso ostili dopo l’outing, un aumento dello stress lavoro correlato fino ad arrivare alla sindrome del burn out, in cui si percepisce un vero e proprio esaurimento a causa della situazione lavorativa, percepita come insostenibile.

Nel secondo caso, invece, l’outing effettivamente accade “per sbaglio”: una persona non si rende pienamente conto di ciò che sta facendo, ad esempio perché non sa che quella informazione è “segreta” quindi in effetti rivela ad altri l’orientamento sessuale o l’identità di genere di un collega, senza voler arrecare un danno.  In questo caso, i vissuti della persona che subisce l’outing possono essere simili: paura per eventuali discriminazioni e ripercussioni lavorative, probabilmente vergogna, perché è come se uno degli aspetti più intimi di sé, che non si era magari ancora pronti a rivelare, fossero ormai stati serviti su un piatto d’argento. Inoltre, la sensazione può essere quella essere vulnerabili, di essere stati traditi e violati.

In realtà, spesso la persona che ha fatto outing inconsapevolmente può anch’essa provare sentimenti molto negativi in quanto può percepire di avere leso il proprio collega e di aver inficiato non solo il rapporto lavorativo con lui, ma anche quello umano. Potrebbe provare un forte senso di colpa per aver tradito la fiducia riposta in lui, anch’esso vergogna per l’atto commesso, sicuramente dispiacere. 

 

Cosa fare quando si subisce outing sul posto di lavoro?

Se ti sei trovato in questa situazione, saprai che non è facile riuscire ad affrontarla. Infatti, se si subisce outing spesso ciò significa che non si è ancora “out” e quindi si è ancora alle prese con l’accettazione della propria diversità in ambito sessuale. Essere in difficoltà non l’accettazione di sé può rendere più complesso affrontare l’outing.

Può essere importante partire da te e chiederti: “quanto potrà cambiare il modo in cui verrò percepito ora che i miei colleghi sanno chi realmente sono?”. Probabilmente, poco. Potrebbe sembrarti inizialmente “moltissimo” la risposta corretta e ciò è perfettamente naturale: la carica affettiva spesso riposta nel proprio coming out ancora non compiuto è molto elevata e potresti essere molto attivato a livello emotivo, trattandosi di un aspetto così intimo di te. Spesso, quando si provano emozioni molto forti tendiamo a guardare alla realtà in modo peggiore rispetto a come realmente è. Acquisita la consapevolezza di com’è la situazione reale, tenendo un attimo da parte i forti sentimenti, è possibile iniziare a elaborare quanto successo. 

Se hai subito outing “inconsapevole”, potrebbe essere una buona idea parlare e chiarirti con il collega che lo ha svelato a tua insaputa. Come abbiamo visto, anche lui potrebbe percepire dei sentimenti di colpa nei tuoi confronti. Ripartire dalle vostre emozioni può essere una modalità iniziale per affrontare la situazione che si è creata. Se hai subito outing in ottica malevola, puoi indirizzarti ai colleghi con cui hai più confidenza o il tuo capo per raccontargli ciò che hai subito. Parlare con loro delle tue emozioni e di come ti sei sentito potrà farti sentire maggiormente accolto e protetto. Ci sono dei casi in cui la situazione è davvero molto complessa da affrontare da soli e in tal caso è possibile eventualmente affrontare un percorso di psicoterapia per gestire le conseguenze dell’outing.

Congedo di paternità:
una vera necessità?

Congedo di maternità e paternità

Il congedo obbligatorio per neo-genitori cambia molto nei due sessi. Le donne, in Italia, hanno un congedo obbligatorio di 5 mesi da distribuire prima e dopo il parto; gli uomini hanno un congedo obbligatorio di 7 giorni (dal 2020, fino all’anno precedente era di un massimo di 5 giorni).  Si potrebbe discutere sull’adeguatezza delle tempistiche, se siano effettivamente compatibili alle necessità di un neonato e di un neo-genitore. Le madri hanno bisogno, nell’immaginario comune, di più tempo, in primis perché affrontano il parto che è fisicamente molto impegnativo e ha dei tempi di recupero del tutto individuali e, in secondo luogo, perché sono ritenute le principali figure di accudimento: si occupano del bambino di più rispetto ai padri. Da qui la forte disparità nel tempo concesso. 

Ma sarà realmente così? Quest’idea deriva da un fattore culturale più che dalle reali esigenze e necessità di un bambino. Complici le teorie psicologiche di inizio ‘900, per lungo tempo si è ritenuto che le madri fossero imprescindibili, più importanti dei padri nell’accudimento dei bambini. Questa è una convinzione erronea che non ha nessun fondamento scientifico. La classica frase “i bambini hanno bisogno di una mamma” è semplicemente uno stereotipo, una credenza popolare. I bambini, piuttosto, hanno bisogno di persone che sappiano accudirli e rispondere ai loro bisogni: la caratteristica imprescindibile non è essere donna ma avere determinate “competenze”, pratiche e psicologiche. Se si fosse consapevoli di questo concetto, supportato da evidenze scientifiche, si potrebbe capire come sia assurda una tale disparità di trattamento nel congedo parentale, discriminante in effetti per gli uomini

 

Congedo di paternità x2 

Il diritto di un padre di dedicare il suo tempo al figlio appena nato e viceversa il diritto dei bambini ad essere accuditi dai propri padri nelle prime fasi di vita non è esattamente garantito e tutelato nel nostro paese, così come in molti altri. La questione cruciale, come si diceva, è che questi non vengono percepite come delle necessità, come dei bisogni e quindi come dei diritti. È considerato “normale” che un padre rientri a lavoro con un figlio di pochi giorni.  Se questo può essere un effettivo problema, emotivo e logistico, per moltissime coppie di giovani che, ad esempio, emigrando in altre regioni per questioni lavorative non hanno a disposizione il sostegno della famiglia allargata, pensiamo a quanto possa essere problematico per una coppia omosessuale di due uomini! Sommando la paternità di entrambi si ottiene un tempo di due settimane. Davvero una tempistica avvilente, sia per due neo-genitori e per un neonato. 

L’inevitabile conseguenza è che la coppia dovrà decidere chi dei due debba (o possa) prendersi un periodo di pausa dal lavoro, con un carico di frustrazione per entrambi inevitabile. Questo diventa un rischio, sia per il compito genitoriale sia per il futuro rientro a lavoro. Come le aziende ben sanno un lavoratore efficiente è un lavoratore sereno; una persona che si ritrova costretta a lasciare anche solo per un periodo di tempo il suo lavoro al suo rientro avrà un’insoddisfazione e una frustrazione nei confronti del “sistema”, dello stato e perché no, dell’azienda, che inevitabilmente inciderà anche sulla sua performance lavorativa.  A prescindere da quanto le politiche aziendali siano attente alle tematiche LGBT+, è importante evidenziare che qualunque persona, nel momento in cui diventa genitore, a prescindere dal sesso e dall’orientamento sessuale, sente il bisogno di dedicare del tempo a suo figlio. Quando ciò non è possibile o è fortemente ostacolato questa persona potrebbe incontrare diverse difficoltà e porterà inevitabilmente lo stress emotivo all’interno del suo lavoro.

Discriminazione sul lavoro:
di cosa si tratta?

Quali tipi di discriminazioni?

La discriminazione è una disparità di trattamento che viene messa in atto nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come il sesso, l’età, l’etnia o l’orientamento sessuale. In tempi recenti si parla sempre più spesso e si ha più sensibilità nei confronti dei diritti della comunità LGBT+ in ambito lavorativo: si parla di diversity, di inclusion, di politiche aziendali “LGBT+ friendly” e così via. Tutto ciò è molto positivo ed è un concreto tentativo da parte di molte aziende a combattere la discriminazione, quella esplicita in particolar modo.

 La discriminazione infatti è di diversi tipi: è diretta nel momento in cui si attua un trattamento diverso nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come l’orientamento sessuale; è invece indiretta quando criteri apparentemente “neutri” mettono in svantaggio lavoratori LGBT+. La peggior forma di discriminazione è infine la molestia: comportamenti aggressivi, ostili, umilianti o offensivi volti a violare la dignità di una persona. 

Se, come dicevamo, moltissime aziende a livello globale oggi si impegnano attivamente a combattere le discriminazioni dirette e le molestie, è meno difficile agire nel campo delle discriminazioni indirette, innanzitutto perché sono discriminazioni molto più difficili da individuare e riconoscere. 

 

Un esempio di discriminazione indiretta

Per le aziende e per i lavoratori stessi è spesso molto difficile riconoscere quali possano essere delle discriminazioni indirette nei confronti di lavoratori LGBT+. Un esempio riguarda il congedo parentale: gli uomini, ad esempio, possono richiedere il congedo parentale per un periodo di 6 mesi successivi alla nascita del figlio.  Pensando ad una coppia di uomini, si possono ritenere sufficienti 6 mesi (considerati scarsi anche per i padri eterosessuali), considerando che già una parte di essi potrebbe essere impiegata nel viaggio di ritorno dall’estero (dove per necessità le coppie omosessuali fanno nascere i figli, grazie alla maternità surrogata)? Ciò è valido ovviamente anche per le coppie di donne: solo la donna che partorirà, tramite PMA (procreazione medicalmente assistita), avrà diritto, almeno inizialmente, al congedo per maternità. Sebbene esista la possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale, l’iter legislativo è davvero lungo, oltre che molto oneroso in termini giuridici e psicologici. Le politiche aziendali, quindi, nella prima fase della neo-vita genitoriale ma probabilmente anche dopo, andranno inevitabilmente a intaccare i lavoratori omosessuali con figli. 

Questo è un chiaro esempio di discriminazione indiretta poiché una politica apparentemente neutrale come il congedo parentale discrimina di fatto un insieme di lavoratori. Pensando ad una ipotetica soluzione al problema specifico è chiaro che non sia immediata e neanche di facile realizzazione: il problema di questo tipo di discriminazioni, spesso, non è tanto dell’azienda in sé, quanto del tessuto sociale in senso più ampio, è un problema politico e legislativo. Cosa possono fare, allora, nel concreto le aziende? 

 

Come il welfare aziendale può ridurre le discriminazioni

Di certo, la singola azienda non ha il potere di riformare la legislazione italiana ma può fare molto per i suoi lavoratori, come per esempio creare delle politiche di welfare aziendale che tutelino tutti i lavoratori, anche quelli appartenenti a delle minoranze. 

Nell’esempio di genitori omosessuali, specie nelle prime fasi di vita del bambino, una cosa molto importante che l’azienda può fare è mostrare il suo sostegno e il suo incoraggiamento al proprio dipendente. Anziché un atteggiamento “neutrale”, potrebbe essere positivo riconoscere la singolarità del caso, non trattare il lavoratore come se fosse “uno dei tanti” ma trattandolo nello specifico della sua persona, con i suoi bisogni e necessità. 

Un esempio di supporto molto importante potrebbe essere incentivare lo smart working, il lavoro da casa, o dare la possibilità per un periodo limitato di tempo di ridurre il monte di ore lavorative senza penalizzazioni per la futura progressione di carriera.  Le aziende traggono grande vantaggio dal benessere dei propri lavoratori, per incentivarlo è importantissimo limitare al massimo fino ad eliminare del tutto atteggiamenti discriminatori, prestando attenzione all’individuo e alle sue necessità, in primis come singolo e in secondo luogo come parte di una minoranza.

Stress lavoro-correlato:
Una delle conseguenze della
discriminazione

Ogni tipo di discriminazione provoca dei vissuti estremamente negativi nelle persone. Nei casi in cui le discriminazioni siano particolarmente intense e ripetute nel tempo la persona può incorrere in delle situazioni che meritano l’attenzione clinica poiché vanno a intaccare notevolmente il benessere del singolo. 

Le discriminazioni sul luogo di lavoro sono purtroppo spesso presenti, tra queste comunemente rientrano quelle a causa dell’orientamento sessuale, quando non rispecchia quello della maggioranza: l’eterosessualità. Nelle aziende particolarmente grandi con un numero di dipendenti molto ampio e più sedi, magari anche sparse nel mondo, è molto difficile vigilare e impedire in modo attivo queste discriminazioni. 

È quindi, purtroppo possibile, che le situazioni si acutizzino fino a portare a due tipologie di problematiche: stress lavoro-correlato e disturbo da stress postraumatico

Lo stress lavoro-correlato è quel tipo di stress che deriva dallo squilibrio tra le risorse individuali del singolo e le richieste dell’ambiente lavorativo. È tipico, infatti, delle professioni con un altissimo carico di responsabilità e pressione (come, ad esempio, le professioni medico-sanitarie). Questo equilibrio dipende chiaramente dalle risorse che il singolo ha a disposizione; se queste siano sufficienti o meno non dipende soltanto dalle richieste dell’attività lavorativa (la mansione da svolgere in sé e per sé), ma dipende in modo particolare dalla facilitazione che l’ambiente di lavoro può dare al singolo

Se l’ambiente di lavoro anziché facilitare il lavoratore nelle sue mansioni, essendo quindi un ambiente supportivo e incoraggiante, lo mette sotto pressione o è addirittura discriminatorio, è molto facile che si possa instaurare nella persona uno stress che deriva dall’attività lavorativa, che non sarà di conseguenza in grado di svolgere. 

In un circolo vizioso quindi le discriminazioni e il clima ostile impediranno al lavoratore di svolgere serenamente i suoi compiti, questo aumenterà il carico di stress facendo sentire il singolo inadeguato e incompetente. Il rischio di sviluppare problematiche più serie e debilitanti, come un disturbo depressivo, è molto alto, per cui è importante tenere queste situazioni particolarmente sotto controllo, individuando i primi segnali di malessere e intervenendo tempestivamente. Non è facilissimo individuare un lavoratore che inizia a sperimentare stress lavoro-correlato, specie in quelle attività lavorative per loro natura “stressanti”. Segnali spesso molto significativi sono un calo della prestazione del lavoratore, cattivi rapporti con i colleghi, un atteggiamento di chiusura da parte del lavoratore che nega qualunque problema e rifiuta l’aiuto dei pari e spesso l’assenteismo

Al contrario anche un eccessivo coinvolgimento nel lavoro può essere segnale di stress, si nota in quei lavoratori che rimangono in ufficio oltre l’orario, lavorano anche da casa a qualunque ora o continuano a lavorare durante la pausa pranzo. Bisogna fare molta attenzione a distinguere in questi lavoratori una dedizione al lavoro da un comportamento non sano. In generale, si nota un cambiamento rispetto allo “standard” della persona quindi, se un lavoratore che ha sempre rispettato gli orari di lavoro e si è concesso i giusti momenti di pausa inizia a lavorare compulsivamente a qualsiasi orario, i superiori dovrebbero indagare bene la situazione. 

 

Disturbo da stress postraumatico (PTSD)

Il PTSD è un disturbo altamente debilitante, che viene “innescato” da un trauma. La comune nozione di trauma è di uno specifico evento negativo con un impatto fortissimo sulla persona. In psicologia è stato dimostrato però come dei ripetuti e costanti eventi negativi come le discriminazioni quotidiane a lavoro (a cui sono soggette le persone appartenenti alla comunità LGBT+) possano costituire un trauma

È una situazione chiaramente estrema e in quanto tale facilmente identificabile in un lavoratore: può avere attacchi di panico, evita il contatto con i colleghi o con il luogo di lavoro (portando ad assenteismo), ha una significativa incapacità di concentrazione con un conseguente calo della performance, può avere stati dissociativi in cui si assenta dalla realtà presente vivendo “nella sua testa” le situazioni traumatiche

Riconoscerlo e identificarlo per i “non addetti ai lavori” può non essere immediato, ma in presenza di PTSD si verificano comportamenti piuttosto vistosi e, in alcuni casi, sono facilmente riscontrabili. In casi del genere fornire un supporto ai propri dipendenti, indirizzandoli dagli specialisti competenti, è indispensabile per la loro salute in primis e per un rientro all’attività lavorativa “normale” come successiva conseguenza. 

Come tutelare i lavoratori dalla
presunzione di eterosessualità?

Cos’è la presunzione di eterosessualità

La presunzione di eterosessualità è forse uno degli aspetti più “automatici”, comuni e spesso involontari che vengono messi in atto. Il luogo di lavoro in particolar modo si presta molto alla messa in atto della presunzione di eterosessualità, consiste, infatti nell’atto del presumere che una persona qualunque, specie quando non si conosce molto bene, sia eterosessuale

A lavoro incontriamo tantissime persone tutti i giorni: colleghi, superiori, clienti. Pressoché chiunque, almeno una volta nella vita avrà messo in atto la presunzione di eterosessualità, senza accorgersene. È appunto, si diceva, un gesto automatico, quasi involontario. Deriva dall’esperienza di ciascuno: siamo abituati ad attribuire delle caratteristiche alle persone sulla base di ciò che possiamo osservare. 

Nella nostra società per “identificare” una persona omosessuale la maggior parte delle persone si rifà ad immagini stereotipiche (ad esempio, gli stereotipi veri e propri di uomo gay “effeminato” e donna lesbica “mascolina”), come se l’orientamento sessuale avesse a che fare con il corpo, con gli atteggiamenti o con il vestiario. Quando queste caratteristiche non vengono individuate si riconduce in automatico (erroneamente) la persona all’altra grande categoria, l’eterosessualità (del tutto tralasciando il fatto che l’orientamento sessuale non sia dicotomico: etero o omo, ma abbia molte diverse sfaccettature). 

 

Presunzione di eterosessualità: è un disagio, per chi?

A prescindere dai motivi per cui venga messa in atto, la presunzione di eterosessualità esiste ed è anche abbastanza comune. Molte persone omosessuali che la sperimentano su di loro possono provare un forte disagio: dare per scontato che l’orientamento sessuale sia quello eterosessuale significa svalutare in qualche modo tutti gli altri orientamenti sessuali, come se fossero meno “ovvi” e probabili. 

Il disagio che può scaturire dalla presunzione di eterosessualità non è solo di chi la “subisce” ma anche di chi la attua. Una persona che si ritiene un alleato (ally) della comunità LGBT+ e ne che ha a cuore i diritti, può sentirsi in colpa dopo aver notato di avere assunto questo atteggiamento. Non di meno, come si diceva, chi lo subisce può sentirsi inadeguato, sminuito e probabilmente incompreso. 

Immaginando la situazione in cui due colleghi in buoni rapporti abbiano una conversazione su temi di vita quotidiana potrebbe facilmente accadere che uno dei due presuma l’eterosessualità dell’altro, con frasi “innocue” come: “la ragazza ce l’hai?”. Una persona, ad esempio, omosessuale potrebbe sentirsi estremamente a disagio a dover “dissimulare” il proprio orientamento sessuale, sentendosi magari “costretto” al coming out. Di contro, ad una risposta sincera e schietta “no, ma ho un ragazzo!” il collega potrebbe a sua volta sentirsi in imbarazzo, forse in colpa, forse a disagio. Pensando alle conseguenze della presunzione di eterosessualità sul luogo di lavoro, quindi, non è difficile intuire come possa sfociare in sentimenti e vissuti negativi per entrambe le parti, che possono essere solo temporanei o in base al contesto e ad elementi specifici (immaginate se, anziché con un collega, la stessa conversazione avvenga con il capo) più complessi e “duraturi”. 

 

Come tutelare i lavoratori dalla presunzione di eterosessualità

È risaputo ed ampiamente dimostrato che la serenità sul luogo di lavoro sia un elemento indispensabile per lavorare bene. A questa serenità contribuisce enormemente un buon rapporto tra colleghi, che sia sincero ed aperto, così come un rapporto di fiducia tra superiori e dipendenti.  Un’operazione apparentemente “banale” e spesso involontaria come la presunzione di eterosessualità può minare questo rapporto di fiducia. È quindi estremamente importante porre attenzione a questo aspetto. L’ideale sarebbe, quindi, sforzarsi ad imparare di riconoscere quando la si sta per mettere in atto ed evitare di farlo. 

Spesso è più semplice di ciò che si pensa, un esempio molto banale riguarda le parole: riguardo all’esempio precedente basterebbe chiedere “hai un partner?” in modo generico, senza specificare il genere. È chiaramente molto difficile rendersi conto di qualcosa di automatico, a monte quindi sarebbe un ottimo passo quello di rendere, appunto, meno automatico questo comportamento, sensibilizzando il personale a tematiche del genere. 

Le politiche anti-discriminatorie infatti si incentrano spesso sulle discriminazioni più vistose, come le molestie, ma tralasciano aspetti, come la presunzione di eterosessualità, di cui moltissime persone non sono consapevoli. Le aziende che mettono in atto delle politiche attente alla diversità in ambito sessuale, come la Diversity & Inclusion, potrebbero far percepire il luogo di lavoro come più accogliente. Come già detto, se i lavoratori sono sereni e tutelati, potrebbero avere una maggior produttività lavorativa, portando, quindi, anche a vantaggi non solo sul clima aziendale e i rapporti tra colleghi, ma anche economici.