Chi è Gay Friendly?
Con il termine gay friendly si intendono tutte quelle persone, luoghi, associazioni, che accettano e contribuiscono alla valorizzazione della comunità LGBT+, quindi che sono “amichevoli” e aperti nei confronti di questa comunità. Potremmo dire che è gay friendly chi prova simpatia per la comunità LGBT! Sebbene la società stia facendo grandi progressi nel percorso di inclusione della comunità LGBT, è indubbio che questa sia considerata una “minoranza sociale”: il termine si riferisce semplicemente alla quantità, quindi al fatto che al suddetto gruppo non appartiene la maggioranza della popolazione in un dato momento storico. Gay friendly si riferisce, dicevamo, a persone: molte figure socialmente esposte di spettacolo o politica, come Lady Gaga o Barack Obama, si sono schierate a supporto della comunità LGBT e delle loro battaglie, la prima ha fondato l’associazione “Born this way foundation” a favore dei ragazzi e ragazze LGBT; luoghi: quartieri di molte città in cui si trovano bar, locali, librerie legati alla cultura gay tra cui Soho a Londra, Chueca a Madrid, Via San Giovanni in Laterano a Roma, etc.; associazioni: la prima citata di Lady Gaga, chiaramente Arcigay, Arcilesbica etc., ma anche moltissime aziende importanti che si sono schierate a favore delle lotte LGBT devolvendo in molti casi anche grossi finanziamenti ad alcune campagne, ad esempio Apple, American Express, Disney. È importante specificare come essere gay friendly non voglia dire soltanto “non essere omofobi” quindi non avere pregiudizi: l’inclusione e l’accoglienza vanno ben oltre, significa abbracciare una causa in modo disinteressato, senza secondi fini ed esclusivamente per la “simpatia” che si prova. Simpatia infatti in greco significa “sentire con”, essere partecipe di ciò che sente l’altro… significa capirlo, condividere la sua sofferenza o felicità.
Psicologi e psicoterapeuti Gay friendly
Purtroppo ancora oggi molti psicologi nelle loro attività professionali trascurano l’importanza delle condizioni particolari in cui cresce e si sviluppa un individuo omosessuale o con un’identità di genere fluida. Le minoranze sono sottoposte al “minority stress”: le persone omosessuali e con un’identità di genere non conforme al sesso biologico sperimentano in modo quasi inevitabile uno stress legato a pregiudizi e stereotipi a cui sono sottoposti. Questo stress può essere gestibile in modo autonomo dalla persona, o meno. Nel secondo caso l’esito più negativo è la cronicizzazione che potrebbe portare ad una sofferenza più conclamata. Ciò dipende da molti fattori tra cui: la resilienza individuale, il supporto esterno di amici e familiari, avere modelli di riferimento a cui ispirarsi, etc.
La comunità gay da questo punto di vista dovrebbe ricevere, a nostro avviso, un’attenzione particolare da parte dei professionisti del benessere mentale, in quanto spesso chi appartiene a questo gruppo sociale non riceve un supporto da amici e familiari, sentendosi isolato; in più essendo una comunità relativamente “giovane” chi vi appartiene non ha molti modelli a cui ispirarsi. Potremmo dire che, almeno per il momento, chi appartiene alla comunità LGBT trova sostegno prevalentemente nel suo in-group cioè nella comunità stessa, e meno all’esterno. Nel momento in cui una persona che appartiene a questo gruppo si rivolge a noi psicologi e psicoterapeuti crediamo che esprimere la propria “amicizia” ovvero supporto svincolato da pregiudizi e simpatia di cui si parlava prima, verso persone che vivono la loro appartenenza a questa minoranza in modo negativo, sia fondamentale. Sì, stiamo proprio dicendo che, secondo noi, tutti i terapeuti o psicologi che lavorano con persone gay, lesbiche, transgender, cisgender, etc., dovrebbero essere gay friendly!… O quantomeno avere la capacità di riconoscere di non esserlo e in questo caso inviare ad altri colleghi quei casi su cui non hanno molti strumenti per agire.
Come capisco se il mio terapeuta è Gay Friendly?
Se appartieni alla comunità LGBT e sei entrato in terapia (o hai intenzione di farlo), forse ti sarai chiesto se il tuo terapeuta è effettivamente “quello giusto” per te. Appartenere a una minoranza pone spesso nella spiacevole condizione della diffidenza: si è ormai talmente abituati a sentirsi incompresi e discriminati che le aspettative sugli altri sono negative. Innanzitutto la prima e più banale osservazione che puoi fare se vuoi essere sicuro che il tuo terapeuta non abbia pregiudizi è riguardo alle tue sensazioni: fidati del tuo istinto! Ti senti a tuo agio? Probabilmente il terapeuta sta efficacemente esprimendo la sua “simpatia” (nel senso in cui l’abbiamo intesa prima, non nel senso comune). Un altro aspetto che puoi attenzionare è la sensibilità o al contrario l’indifferenza nei confronti del fatto che tu effettivamente appartenga ad una minoranza: secondo noi la parola chiave tra queste due condizioni è equilibrio! Un terapeuta che è eccessivamente sensibile alle tematiche LGBT rischia di farsi coinvolgere troppo con pazienti con cui entra troppo in empatia (e non solo in simpatia), perde l’obiettività che caratterizza la nostra professione e rischia di amplificare i sentimenti del paziente esternando i propri; al contrario un terapeuta che si mostra indifferente al fatto che tu appartenga ad una minoranza non sta considerando il il minority stress di cui si parlava in precedenza. Spesso l’atteggiamento di chi in generale non vuole mostrarsi omofobo, guidato da stereotipi e pregiudizi, è quello dell’annullare e non tenere in considerazione le differenze tra chi appartiene alla comunità LGBT e chi invece no, tra omosessuali ed etero… si pensa di essere “politically correct”, ma in terapia questo può essere altamente controproducente perché si va ad escludere un pezzo molto importante dell’identità del paziente e della sua storia. In terzo luogo puoi informarti facilmente su internet accedendo al curriculum vitae del tuo terapeuta se ha una formazione specifica in tematiche LGBT: nella nostra professione tenerci costantemente aggiornati è necessario, oltre che doveroso come ci ricorda il codice deontologico (articolo 5). Infine l’ultimo consiglio che possiamo darti riguarda il prestare attenzione alla terminologia che usa il tuo terapeuta: conoscere il significato e utilizzare termini come “coming out”, “outing” la differenza tra transgender e cisgender indica di sicuro non solo un interesse ma anche una preparazione approfondita. Nel rispetto del paziente inoltre i terapeuti gay friendly sono molto attenti a non utilizzare termini e concetti eteronormativi (di chi ritiene che l’eterosessualità sia l’unico orientamento “normale”) che, ad esempio, danno per scontato l’orientamento sessuale dell’interlocutore: se ti chiede “hai un partner?” piuttosto che “hai una ragazza?” molto probabilmente hai trovato un terapeuta gay friendly!
Quando il terapeuta non è gay friendly
Sottolineavamo poco fa l’importanza, a nostro avviso, che un terapeuta sia gay friendly se decide di seguire persone che appartengono alla comunità LGBT, questo non solo nei casi in cui il problema che portano è legato al loro orientamento sessuale o alla loro identità di genere, ma anche nei casi in cui una persona gay, lesbica, trans, etc. semplicemente venga in terapia per altri problemi, qualunque essi siano. Avere degli stereotipi è comunissimo tra tutti, anche tra i terapeuti… è anche per questo che prima di iniziare a lavorare è bene sottoporsi ad un percorso di terapia personale che evidenzi e ci aiuti a superare i nostri “limiti”. I terapeuti infatti sono persone prima che professionisti, e come tutti possono avere delle difficoltà toccando alcuni argomenti in particolare. Saperlo riconoscere è la cosa fondamentale e, nel caso in cui siano così radicati in noi da non riuscire ad accantonarli, è una responsabilità morale inviare i pazienti ad altri colleghi. Non si vuole con questo discorso “condannare” chiunque non sia gay friendly, bollandolo come “omofobo”… il messaggio che vorremmo far passare è che essendo una minoranza, come dicevamo, con bisogni specifici, necessita di professionisti con una formazione specifica e un aggiornamento costante su questo campo; anche qualora il problema portato non sia attinente a temi LGBT avere degli stereotipi può influenzare negativamente il percorso terapeutico. Come mai? Il motivo è che si andrebbe a intaccare una delle chiavi fondamentali in terapia, quella che viene definita alleanza terapeutica: il feeling che si viene a creare tra paziente e terapeuta che pone le basi per fiducia e rispetto reciproci, che portano il percorso terapeutico ad essere veramente efficace.
Il paziente e lo psicologo hanno infatti degli obiettivi comuni da raggiungere insieme, collaborando in modo produttivo e propositivo da ambi i lati. Ciò che permette di lavorare insieme al raggiungimento di questi obiettivi è proprio la fiducia l’uno nell’altro, il rispetto per i sentimenti e per ciò che si investe nel percorso terapeutico da entrambe le parti e in generale un sentimento di condivisione e di empatia. Qualunque elemento possa interferire con l’alleanza è nocivo alla terapia e va escluso: se ad esempio un terapeuta avesse dei pregiudizi nei confronti delle persone omosessuali, potrebbe automaticamente ricondurre tutti i problemi che la persona porta in terapia (es un disturbo d’ansia) all’orientamento sessuale, ad ipotetiche problematiche infantili nell’elaborazione del processo che ha portato il paziente a non essere eterosessuale (orientamento “normativo” secondo chi è guidato da pregiudizi). In aggiunta è importante sapere che, purtroppo, ancora oggi esistono terapeuti che credono nelle così dette “terapie riparative” o di conversione, tese appunto a convertire l’orientamento sessuale di una persona. Quello che noi crediamo è che l’obiettivo delle terapie sia certamente un cambiamento, ma un cambiamento del benessere della persona, non della persona stessa. Ci sentiamo di diffidare da e condanniamo qualunque tipo di terapia o intervento che abbia come proposito di cambiare nel profondo una persona, perché parte dal presupposto che ci sia qualcosa di sbagliato da correggere, qualcosa di “non normale”. Ma ci siamo mai chiesti davvero cosa sia la normalità? Il termine in statistica indica semplicemente la tendenza prevalente di una popolazione, cioè il fatto che una quota abbastanza ampia del gruppo considerato abbia una caratteristica che la minoranza non ha. Riteniamo che sia molto riduttivo oltre che fuorviante applicare questo modo di ragionare alla complessità umana: non è un caso che agli studenti di psicologia una delle prime cose che viene insegnata è che “non esiste la normalità, contrapposta alla patologia”. L’essere umano è un insieme di sfumature molto complesse, sovrapposte e intrecciate, impossibili da incasellare ed etichettare. Quegli interventi psicologici (come la terapia riparativa) che mirano a “normalizzare” la persona, non rientrano nel nostro modo di intendere la psicologia: strumento per ampliare la conoscenza che il paziente ha di sé, delle sue capacità e delle sue risorse e aumentare tramite tutto ciò il suo benessere psicologico e la sua soddisfazione generale di vita.