Cross dressing

Siamo certi che esistano solo due sessi?

Siete mai stati in un campo estivo? Molto spesso si svolgono delle attività ricreative per creare un senso di condivisione e comunalità tra i ragazzi e le ragazze che vi partecipano. Non è infrequente che in queste attività rientrino giochi di squadra e gare “insoliti” che divertono molto chi vi partecipa. Un esempio nella nostra esperienza, diretta e indiretta, è un gioco in cui si dividono le squadre per sesso e si imposta una “sfilata” particolare: i maschi devono sfilare vestiti da femmine mentre le femmine vestite da maschi. Chi convincerà maggiormente i giudici, cioè i responsabili del campo estivo, del proprio travestimento vincerà la gara. Indossare letteralmente i panni del sesso opposto ha un nome ben preciso: cross-dressing. Questa terminologia si basa su due presupposti indispensabili: considerare il sesso come dicotomico, maschi e femmine; considerare l’abbigliamento come distinguibile in abiti che sono prerogativa del genere maschile e altri prerogativa del genere femminile. Analizziamoli entrambi: il primo sembra assolutamente scontato alla maggior parte delle persone che ritengono ovvio che esistano due soli sessi e due soli generi di appartenenza. In tempi recenti però, grazie all’apertura mentale a ciò che appare inconsueto anche nel campo della sessualità e di tutte le sue componenti, è sempre più conosciuta e diffusa l’idea di identità di genere come un continuum, una sorta di scala che va dal polo maschile a quello femminile ma che ha in mezzo molti livelli intermedi. È infatti sempre più conosciuta la dicitura “gender fluid” per indicare quelle persone che si muovono nel continuum, assumendo un’identità prevalentemente femminile, ad esempio, in alcuni momenti della propria vita, e prevalentemente maschile in altri. Alcune persone assumono uno di quei punti intermedi del continuum in modo stabile, sentendosi nel corso della loro vita per una certa “quota” femmine e per un’altra “quota” maschi; altre ancora si collocano esattamente a metà sentendosi egualmente femmine o maschi, o nessuno dei due. Insomma le possibilità sono infinite. Ma perché stiamo parlando dell’identità di genere? Ah già, perché nella nostra cultura diamo per scontato che sia dicotomica, quando in realtà non lo è. Detto ciò chiariamo da subito un fatto cruciale: non è necessario essere in un punto intermedio di questo continuum per praticare il cross-dressing! Persone che si sentono totalmente maschi o totalmente femmine possono avere l’abitudine di indossare abiti che culturalmente appartengono al sesso opposto. 

 

Quella volta che ho indossato i tacchi di mamma

Il secondo presupposto del cross-dressing, oltre la concezione binaria di genere, è che ci sia un abbigliamento femminile e uno maschile. Questo è ovviamente un prodotto culturale. Resteremmo allibiti dal vedere arrivare in ufficio il nostro capo, uomo, con un tacco 13. Il fatto che sia un prodotto culturale è dimostrabile tramite “l’innocenza” dei bambini: spessissimo i bambini piccoli, sia maschi che femmine, ancora relativamente immuni alle convenzioni culturali, giocano con gli abiti dei genitori in modo indiscriminato: indossano la cravatta del papà insieme al bracciale di perle della mamma e i suoi tacchi. Un bambino può giocare a indossare tutti gli abiti della madre poiché ammirandola vorrebbe essere proprio come lei, non può ancora capire che sta giocando a “travestirsi”. Questo comportamento dei bambini suscita spesso l’ilarità e il divertimento dei genitori, in modo particolare quando un bambino maschio indossa i vestiti della mamma. Anche questo è uno spunto interessante di riflessione: come dicevamo saremmo increduli a veder indossare un uomo dei tacchi alti, ma non lo siamo se una donna indossa una cravatta (certo adattata a “caratteristiche femminili”) un completo, una camicia. Come mai?

 

Coco Chanel: la donna che permise alle donne di vestirsi da uomo

Il mondo della moda detta le leggi di ciò che è accettabile nel campo dell’abbigliamento e di ciò che non lo è. Oggi non ci stupiamo quando le donne indossano abiti che sono sempre stati considerati prevalentemente maschili, un esempio tipico è il completo. Per la prima volta all’inizio del ‘900 una donna che ha fatto la storia del mondo della moda ha riscritto le regole dell’abbigliamento diviso per genere: Coco Chanel ha creato il primo modello di pantaloni da donna nei ruggenti anni ’20 e poco dopo il primo tailleur da donna, negli anni ’30. Da allora l’abbigliamento “maschile” è stato sdoganato per le donne che oggi lo utilizzano frequentemente. Questa è sicuramente una conquista delle lotte femministe per la parità di genere: finalmente le donne si sentono libere di indossare indumenti più comodi, pratici, sentendosi al pari degli uomini ad esempio nel posto di lavoro. Che le donne utilizzino abiti maschili è assolutamente comune, “normale”, accettato: è anche per questo motivo che il cross-dressing suscita molto più scalpore quando sono gli uomini a praticarlo. È evidente che il motivo sia culturale per i motivi appena descritti, aggiungiamo inoltre un elemento un po’ provocatorio: la società accetta molto più facilmente che una donna aspiri a somigliare a un uomo, ad ottenere cose che lui ha sempre avuto, piuttosto che il contrario. Va bene che una donna voglia essere come un uomo, ma il contrario assolutamente no! Forse ciò potrebbe rientrare in una mentalità sessista e patriarcale che è davvero dura a morire in tutti noi.  

 

Che confusione!

Torniamo al cross-dressing: la pratica di indossare, abitualmente o occasionalmente, abiti culturalmente attribuiti al genere opposto a quello di appartenenza. È abbastanza probabile che ciascuno di noi abbia praticato cross-dressing almeno una volta nella sua vita, da piccolo in modo inconsapevole, a un campo estivo, durante le recite scolastiche. Per la categoria degli attori è ovviamente spesso inevitabile dover praticare cross-dressing, quando si deve interpretare un ruolo del sesso opposto. A proposito di intrattenimento, si ha una forma particolare di spettacolo, quella delle drag-queen e dei drag-king: persone che si travestono in modo molto vistoso ed eccessivo con abiti del sesso opposto per esibirsi in numeri musicali di canto e/o danza. È purtroppo molta diffusa una credenza erronea per cui le drag queen (parliamo principalmente di loro per questioni di diffusione) sono transessuali, ovvero vorrebbero appartenere al sesso opposto perché si travestono da donne. Questo potrebbe essere vero ma non è assolutamente inevitabile: non tutte le drag queen sono transessuali. Si ha spesso davvero molta confusione riguardo ai termini transessualismo, drag queen, cross-dressing e travestitismo. Si ha una sorta di tendenza indiscriminante a considerarli tutti come sovrapponibili a cui, purtroppo, si abbina una tendenza discriminatoria e patologizzante: per la maggior parte delle persone, uomini che praticano cross dressing quindi si vestono con abiti femminili, le drag queen che si esibiscono in abiti femminili pur essendo uomini, le persone transessuali che pur essendo uomini si percepiscono donne nella loro identità di genere e infine i così detti “travestiti” (che in realtà sono persone con un disturbo parafilico da travestitismo) sono tutti un’unica cosa; in più si ha la credenza (assolutamente erronea) che siano inevitabilmente omosessuali.

 

Occhio a non patologizzare

Si ha la tendenza a sovrapporre il crossdressing al travestitismo, alla transessualità e all’omosessualità. Andiamo per ordine. Innanzitutto escludiamo l’omosessualità che riguarda l’orientamento sessuale, da chi si è attratti sessualmente; questo non ha a che fare con l’identità di genere che percepiamo di avere. L’identità di genere è coinvolta nella transessualità che si sperimenta nel momento in cui il sesso biologico con cui si nasce non corrisponde all’identità di genere, chi ci sentiamo di essere. Restano cross-dressing e travestitismo. In effetti non è immediata da individuare la differenza: abbiamo fin ora detto che le persone che praticano cross-dressing sono persone che indossano abiti del sesso opposto quindi in effetti si travestono. Per travestitismo allora cosa si intende? In realtà è lo stesso comportamento ma in un’ottica patologica: sono persone che non riescono a fare a meno di trasvestirsi. In più la differenza cruciale riguarda il piano sessuale: le persone che praticano cross-dressing non lo praticano perché ciò gli provoca un’eccitazione sessuale, le persone con un disturbo da travestitismo invece si. Il disturbo infatti rientra i disturbi parafilici: disturbi per cui una persona riesce a ottenere eccitazione e godimento sessuale in modo vincolato a un oggetto, una parte del corpo o un’attività specifica (tra cui il travestirsi). Questa “selettività” nella possibilità di eccitarsi determina un disagio per la persona che ne soffre (qui la differenza tra disturbo parafilico e parafilia, spesso confusi: la parafilia non è patologica in quanto non comporta per la persona che la sperimenta un disagio e una sofferenza). L’ulteriore conferma del fatto che disturbo da travestitismo e cross dressing siano comportamenti molto diversi, il primo patologico, il secondo no, deriva da studi scientifici (Långström, Zucker, 2005): in un campione svedese esaminato nel 2005 il cross-dressing, praticato secondo gli autori principalmente dagli uomini, era correlato a una buona soddisfazione di vita (potremmo ipotizzare che il motivo sia che si sentono più liberi di essere come vogliono); molti cross-dresser inoltre riportavano posizioni socio-economiche abbastanza elevate; l’87% riferiva un orientamento eterosessuale difatti moltissimi erano sposati con figli. Tra queste persone svedesi che praticavano cross-dressing pochissime riportavano eccitazione sessuale nel farlo e gli autori classificano questa categoria di individui come persone con un disturbo parafilico.

Insomma, la letteratura, l’esperienza personale, la storia se vogliamo, ci dice che indossare i panni del sesso opposto non è assolutamente un comportamento patologico; se questo è assolutamente condiviso riguardo alle donne, non lo è oggi a proposito degli uomini. Avremmo bisogno di una nuova Coco Chanel che “permetta” agli uomini di vestirsi da donne. 

Come in moltissimi ambiti che coinvolgono i ruoli di genere, è la cultura a dover cambiare, ci vuole pazienza ma anche tenacia, del resto ce lo insegna anche la Disney: se Mulan non si fosse vestita da uomo, probabilmente gli Unni avrebbero invaso la Cina! 

Disforia di genere

Chiamatemi Lili

Copenaghen, anni 20 del secolo scorso. Una coppia sposata di artisti, Einar e Gerda Wegener, vede sconvolti i propri equilibri quando Einar, inizia a vestirsi da donna traendone un enorme soddisfazione e benessere psicologico. Inizialmente la moglie è sconvolta da questa “novità” del marito, rifiutandola, ma nel momento in cui si rende conto che è un bisogno, una necessità per la persona con cui condivide la vita, accompagna Einar in un difficilissimo percorso che lo porta a diventare Lili Elbe. Nel 1930 il percorso ha il suo culmine con l’intervento chirurgico con cui Einar smette di essere biologicamente uomo e tramite la rimozione dei testicoli inizia la sua definitiva transizione in donna. Considerata l’epoca storica non vi stupirà sapere che il caso attirò enormemente l’attenzione pubblica, tanto da diventare oggetto di romanzi e film fino ai giorni nostri. Vi suonava familiare questa storia, non è vero? Molto probabilmente avrete visto o sentito parlare del film “The Danish girl”, nelle sale Italiane nel 2016, che con l’interpretazione magistrale di Eddie Redmayne racconta questa vicenda realmente accaduta che possiamo a tutti gli effetti definire storica.  L’evento storico è, chiaramente, il primo intervento chirurgico di cambio sesso, la rimozione dei testicoli. Lili ebbe però “fretta” di diventare definitivamente donna e si sottopose dopo poco ad una vaginoplastica che le fu fatale. Sappiamo che le etichette non possono riassumere la complessità dell’essere umano, ma quando si ha molta confusione riguardo a degli argomenti ancora molto poco conosciuti possono essere utili a fare chiarezza…quindi: sapreste definire il problema di Einar/Lili, dargli un nome? Siamo sicuri che moltissimi definirebbero Lili un travestito (fino a prima dell’intervento), altri forse omosessuale, molti probabilmente transessuale. Chi avrebbe ragione?

 

Disforia di genere

Una persona che si sottopone a un intervento chirurgico, più varie cure e procedure ormonali, al fine di cambiare sesso è una persona transessuale. È bene specificare che non tutte le persone transessuali sentono la necessità di sottoporsi all’intervento di transizione, modificando i propri genitali, anzi! Moltissimi si identificano con il sesso opposto a quello biologico di appartenenza ma non si sottopongono mai all’intervento. Ciò dovrebbe farci riflettere molto: siamo abituati nella nostra società ad associare automaticamente ed inevitabilmente il sesso biologico con l’identità di genere. Il sesso biologico è quello che ci viene assegnato alla nascita sulla base del nostro corpo e in particolare dei nostri genitali. L’identità di genere è il sesso con cui la persona si identifica, in cui si riconosce. Nel momento in cui una persona nasce con un determinato sesso biologico (es maschio) ma si identifica con il sesso opposto (quindi femmina) si ha un disturbo psicologico ben preciso: la disforia di genere. Essendo un disturbo comporta chiaramente un disagio, disagio così intenso che porta addirittura a sottoporsi a un intervento molto doloroso e sicuramente non esente da rischi, oltre che a cure ormonali molto pesanti per il corpo, per il cambio di sesso. È il caso di Lili, la Danish Girl che trova il coraggio di esprimere liberamente chi è solo in età adulta. La disforia di genere però non “arriva” da un momento all’altro, come può arrivare una depressione: a differenza di moltissimi altri disturbi che possono manifestarsi in qualunque momento della vita, l’insorgenza è estremamente precoce, si ha quindi già da bambini. Chiaramente da piccoli non si ha ancora una consapevolezza tale da esperire un intenso disagio, requisito indispensabile per diagnosticare il disturbo, ma molto presto i bambini sono esposti ai tradizionali ruoli di genere, che abbinano determinate caratteristiche al maschile e altre al femminile. Un bambino quindi capisce molto presto cosa la società si aspetta da lui, attribuendo il ruolo di genere sulla base del sesso biologico ma senza minimamente considerare l’identità di genere. È così che una persona, anche se in età molto precoce, vive un disagio intenso dato dalla discrepanza tra richieste e aspettative della società, quello che il suo corpo gli impone e quello che sente dentro di sé, nella mente e nel cuore. 

 

L’apparenza inganna… ma a volte lo dimentichiamo

“Non giudicare un libro dalla copertina”, “l’apparenza inganna”. Quanta verità si cela a volte nei banali detti popolari. Sappiamo per esperienza personale che l’esterno non sempre corrisponde all’interno, che ciò che noi vediamo può ingannarci. Pensiamo banalmente di andare a comprare la frutta: sulla base di cosa la scegliamo? Quella “più bella”, ovvio. Per decidere quali mele comprare sicuramente ci orienteremo verso quelle più rosse, più grandi, senza ammaccature. Quante volte vi è capitato di aprire queste mele perfette fuori e trovarci il vermicello dentro? O che non sapessero proprio di nulla perché piene di pesticidi e sostanze chimiche varie? Ma d’altronde si sa…l’apparenza inganna! Come mai allora sembriamo dimenticarlo quando ci arroghiamo il diritto di giudicare una persona e il suo orientamento sessuale e soprattutto identità di genere basandoci su ciò che vediamo? Perché nel vedere un bambino in atteggiamenti “femminili” pensiamo subito che da grande sarà gay e non ci sfiora nemmeno per un attimo che la sua identità di genere possa essere diversa dal sesso biologico? Perché valutiamo solo ciò che possiamo vedere, il sesso biologico, e non ciò che non possiamo, l’identità di genere? Siamo, purtroppo, ancora enormemente influenzati dagli stereotipi sociali di genere che hanno dominato per secoli, ma che (concedeteci l’eufemismo) iniziano a puzzare di vecchio (o puzzare di mela marcia). Come vedrete però siamo in vena di porvi domande a cui non possiamo darvi ancora risposte ben precise, eccone un’altra: perché, ci stupiamo molto di più a vedere un bambino in atteggiamenti femminili e non una bambina in atteggiamenti maschili? In ogni famiglia, classe delle scuole elementari, squadra di nuoto, c’è quasi sempre la bambina che è denominata da tutti “un maschiaccio”. È comune, ma è per questo che non ci stupiamo? Assolutamente no. La nostra ipotesi è che per la società sia più accettabile che una donna aspiri a essere come un uomo piuttosto che il contrario…ah il sessismo…che brutta erbaccia difficile da estirpare! Ma questa è un’altra storia, coinvolta però indubbiamente nella disforia di genere.  

 

Lasciatemi liber* di essere chi sono

La disforia di genere è, quindi, un disturbo determinato dalla marcata incongruenza percepita tra il genere biologico assegnato alla nascita e quello soggettivamente esperito. Si ha un forte desiderio di appartenere al sesso opposto che si manifesta specie nei bambini con una insistenza nel volersi atteggiare e vestire come le persone del sesso opposto. La sofferenza esperita è notevole. Da cosa deriva questa sofferenza? Sicuramente dall’impotenza, rabbia e frustrazione che una persona può sperimentare a causa del fatto che è nata “in un corpo sbagliato”. Siamo sicuri che sia tutto qui? Vorremmo raccontarvi la storia raccontata da fanpage.it (link al video in bibliografia) di Lori, bambina che quando viveva in Italia era scritta sul registro di classe e all’anagrafe con il nome di Lorenzo. La mamma di Lori non ha mai ostacolato la vera “natura” di sua figlia, assecondando il suo bisogno e desiderio di essere una femmina. Lori e la mamma vivono adesso a Valencia, dove il clima culturale nei confronti della comunità LGBT è molto più di apertura rispetto che in Italia, quindi in classe le amichette di Lori non si sono stupite dal sapere che una volta era un maschio, grazie anche alle spiegazioni prive di stereotipi che hanno saputo dare i loro genitori. Lori è una bambina transgender, non ha subito alcun intervento di cambio sesso (d’altronde è troppo piccola, forse lo farà in futuro, forse no) ma questo non deve interessarci; ciò che davvero ci interessa è che Lori è una bambina felice. Non soffre per essere nata biologicamente maschio, si comporta come si sente, è libera di essere ciò che si sente di essere (grazie alla famiglia e alla società). Lori potrebbe rientrare nella categoria di disforia di genere? Secondo i criteri diagnostici, le mere etichette forse si; secondo il buon senso che ogni psicologo deve avere no, Lori non soffre, non ha un problema. È con l’ultima domanda quindi, che vogliamo lasciarvi a pensare: certo, le etichette a volte chiariscono ciò che non conosciamo (esempio distinzione tra sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, ruolo di genere) ma non credete che, a volte, confondono e rendono complesse situazioni più semplici di ciò che immaginiamo?

Le persone LGBT+ nello sport

Quanto sono riconosciute le persone LGBT+ nello sport?

La European Gay Lesbian Sport Federation (EGLSF) è la prima organizzazione internazionale, con sede ad Amsterdam, che a livello europeo promuove all’interno del mondo sportivo la visibilità delle persone LBGT+. Si occupa infatti di coordinare gruppi sportivi e di organizzare eventi a livello continentale come gli Eurogames. Perché esiste un’organizzazione del genere? Il motivo è ovvio: nel mondo dello sport non c’è una presenza accettata e riconosciuta di persone LGBT+. Ciò si nota, ad esempio, dallo scalpore che suscitano i coming out di noti personaggi sportivi. Le testate giornalistiche, in ogni parte del mondo, trattano la notizia del coming out degli sportivi come una notizia sensazionale, che deve necessariamente suscitare un enorme “scandalo”, anche quando gli stessi sportivi la trattano con estrema naturalezza e semplicità. Un esempio? Paola Egonu è una bravissima pallavolista classe ’98 della nazionale italiana che, a seguito di una sconfitta nel campionato mondiale 2018 ad un giornalista che le chiedeva “Come hai affrontato la delusione della sconfitta?” ha risposto con tutta la naturalezza del caso: “Ho chiamato la mia ragazza che mi ha consolata”. Il giornale non ha mancato di gestire la notizia come se fosse una rivelazione shock. Ma per quale motivo suscita così tanto scalpore tutt’oggi, in Italia in particolar modo, che gli sportivi facciano coming out?

 

LGBT+ nel mondo del calcio: un connubio possibile?

In alcuni sport più che in altri si nota una forte resistenza nei confronti della comunità LGBT+. Prendiamo ad esempio lo sport più diffuso e seguito a livello mondiale ma specialmente italiano: il calcio. Riusciamo a pensare ad un calciatore italiano gay? Probabilmente no. È plausibile pensare che, su circa 1000 uomini calciatori agonisti nel nostro paese (calcolato facilmente con una semplice moltiplicazione di numero di squadre di serie A e B, 40 circa, per numero di giocatori a squadra, 25 circa), nessuno di questi sia gay, trans, bisessuale o asessuale? Non è facile dare una spiegazione a questo fenomeno, però il calciatore “tipo” nell’immaginario collettivo incarna lo stereotipo di uomo con le caratteristiche di virilità e forza, caratteristiche opposte allo stereotipo di omosessuale (effeminatezza e fragilità). Anche la questione dello spogliatoio citata dal calciatore non è da sottovalutare: in un ambiente di quel tipo gli uomini scherzano molto con la sessualità, denigrando di fatto la sessualità tra uomini; è comprensibile quanto una persona omosessuale possa sentirsi scoraggiata al coming out e non voglia esporsi al rischio di venire emarginata dalla sua squadra. La coesione tra i compagni di squadra, infatti, è cruciale per avere delle alte performance. Insomma, il mondo del calcio, non è difficile dirlo, è più omofobo rispetto ad altri ambiti sportivi. Anzi, specifichiamo: il mondo del calcio maschile. Nel mondo del calcio femminile, infatti, le calciatrici omosessuali non fanno scalpore, sono molte e le persone lo ritengono quasi ovvio: “se gioca a calcio ovvio che sia lesbica” (usato purtroppo spesso in senso denigratorio). Si tratta, in realtà, di uno stereotipo: così come il calciatore è “sicuramente” eterosessuale, la calciatrice è “sicuramente” lesbica. Non è certamente sempre così. Questi stereotipi confermano quanto detto appena prima: il calcio nell’immaginario comune è (purtroppo) sport da uomo, da “uomo vero”. 

 

Lo sport non è solo una questione di fisico

Uscendo dallo specifico ambito del mondo calcistico, non abbiamo di fatto trovato risposta alla domanda “Perché il coming out degli sportivi suscita, in genere, scalpore?”. Infatti, si è parlato del perché nel mondo del calcio il coming out non esista proprio, ma questo non è generalizzabile ad altri sport. Sono molti a livello mondiale gli sportivi che hanno dichiarato la propria omosessualità o il proprio transgenderismo (più a livello mondiale che a livello italiano nello specifico): pallavolo, pallamano, basket, tennis, atletica, nuoto, tuffi, ginnastica artistica, etc. 

La diversità LGBT in ambito sportivo è considerata ricchezza? Valore? Forse, non proprio. Se nel mondo lavorativo negli ultimi anni le politiche di diversity management sono sempre più orientate a valorizzare la diversità delle persone è perché ci si è resi conto che, in quell’ambito, la diversità è ricchezza. Nel lavoro, infatti, la persona che sta dietro il ruolo è cruciale per ottenere un’alta performance. Nello sport vale lo stesso? C’è in realtà l’opinione, molto diffusa, che a prescindere dallo sport a cui ci si riferisce ciò che sia importante è la prestazione fisica di per sé. Tutti gli sportivi sanno, però, che la componente mentale e psicologica è cruciale in qualunque sport, sia individuale che di squadra. Perché allora non si considera che nello sport, proprio come nel lavoro, la diversità può essere ricchezza? 

Questo potrebbe essere, infatti, sereno ed onesto con sé stesso; di conseguenza avrà la mente libera da altre preoccupazioni per potersi concentrare sulla sua performance, in altre parole potrà dare il massimo. Purtroppo, ancora oggi la diversità LGBT nello sport non solo non è valorizzata, è non considerata, come se non esistesse. È per questo motivo che nel momento in cui si presenta i giornali (e le persone di conseguenza) trattano questo elemento come qualcosa che “fa notizia”. Ci sono, però, alcune realtà milanesi che tengono particolarmente alla rappresentazione delle persone LGBT+ nello sport, come Gate Volley Milano, Rainbowling Milano e Pride Sport Milano (propone pallacanestro, yoga, ciclismo e nuoto), in cui potrete trovare riconoscimento e…divertimento!

Orientamento sessuale:
questione di gusti

I gusti sono gusti

Immaginiamo di trovarci in un caldissimo pomeriggio estivo, insieme al nostro gruppo di amici, ad entrare in una gelateria: trovandoci di fronte al bancone dei gelati sperimentiamo di certo un iniziale momento di confusione e trepidante desiderio di mangiare tutti i gusti di gelato presenti. Alla fine però, riusciamo sempre a scegliere alcuni gusti, alcuni dei nostri amici scelgono sempre gli stessi, altri sperimentano gusti vari, altri ancora hanno avuto il coraggio di scegliere davanti i nostri occhi gusti di gelato a nostro avviso immangiabili (dai, non ditemi che nessuno di voi ha storto il naso di fronte al gelato “Puffo”… ma che è?? Colorante allo stato puro).  Avendo compiuto ognuno la sua scelta, siamo tutti contenti del nostro gelato, ce lo gustiamo felicemente ed è davvero improbabile che il famoso amico che avesse scelto il gusto “puffo” si sia sentito inadeguato per aver preso un gelato “impopolare”. Vi stare chiedendo dove vogliamo arrivare… semplice no? I gusti sono gusti. Non abbiamo il diritto di sindacare sui gusti altrui, né che si tratti di gelato, né che si tratti di abbigliamento, né che si tratti di partner sessuali e sentimentali. L’orientamento sessuale è una questione di gusti!

 

“Dimmi chi ami e ti dirò se puoi prenotare”

Nell’agosto 2019 “Il fatto quotidiano” riporta un fatto di cronaca che vede protagonista un ragazzo di Modena, il quale aveva nei suoi programmi qualcosa di semplicissimo e molto prevedibile dato il periodo: andare in vacanza. Come mai è finito sul giornale? La proprietaria del B&B che ha prenotato tramite una piattaforma online si è rifiutata di accettare la prenotazione dopo aver appreso che il ragazzo sarebbe stato in compagnia… del suo ragazzo.  La domanda che lascia (almeno noi) davvero perplessi è: perché il gestore di un albergo dovrebbe interessarsi della vita intima e privata dei suoi ospiti? Senza entrare nel merito della questione discriminatoria (perché di discriminazione a tutti gli effetti si tratta), il “problema” sta a monte. Prima ancora di addentrarsi in tutte le analisi psicologiche, sociologiche e culturali del caso ognuno di noi può provare a dare una risposta alla domanda “ma perché mai, nel 2019, i gusti sessuali di una persona possono essere oggetto di discussione (e discriminazione) da parte di altre persone?” “Perché non riusciamo a percepire i gusti sessuali e sentimentali proprio come percepiamo i gusti del gelato?”. 

 

“No ma io non sono mica omofobo eh!”

Nonostante finalmente la comunità LGBT+ inizia ad amalgamarsi con la società e a dover combattere battaglie meno dure (seppur ancora necessarie) per chiedere il rispetto dei propri diritti in quanto persone, la cultura è qualcosa di potentissimo e dominante. I valori culturali del nostro contesto di appartenenza ci influenzano in modo davvero forte e necessitano di molto tempo per cambiare in modo profondo. Il cambiamento è sicuramente iniziato, ma finché ci saranno episodi di questo tipo (per non parlare neanche degli episodi di violenza e bullismo) ciascuno di noi deve sentirsi responsabile per non stare veicolando il cambiamento nei limiti delle sue possibilità!  Essere “politically correct” oggi va molto di moda, la maggior parte delle persone soprattutto tra le generazioni più giovani ci tiene a specificare “no ma io non ho niente contro i gay, anzi! Ho un sacco di amici gay”. Ecco, questo non è sufficiente a promuovere il cambiamento di cui si parlava.  Finché si verificheranno episodi di discriminazione, odio, violenza, è un dovere civico e morale, specialmente per i più giovani, innnanzitutto fermarsi a riflettere in prima persona e in secondo luogo stimolare chi ci sta intorno a riflettere insieme a noi. 

 

Cosa non si può più accettare 

Nel 2018 a Budapest, Ungheria, sono stati cancellati 15 spettacoli teatrali all’Opera, in linea con un’aggressiva propaganda anti-gay secondo cui “Billy Elliot” spinge i ragazzi a diventare omosessuali. Senza uscire troppo dal nostro orticello, in Italia è stato stimato un numero di 20.000 persone l’anno che si rivolgono alla gay help line per discriminazioni, violenze e abusi perpetrati nei propri confronti in quanto gay. Un ragazzo di Napoli di 14 anni, sempre nel 2018, è stato affidato ai servizi sociali dopo aver chiesto aiuto a causa del fatto che i suoi genitori, dopo aver appreso del suo orientamento sessuale, lo torturavano gettandogli benzina sulle caviglie a cui poi davano fuoco, provocando ustioni.  Fortunatamente casi così gravi sono isolati e non ancora troppo frequenti, ma finché anche una sola persona non potrà esprimere il proprio orientamento sessuale come si esprime la preferenza per uno o per l’altro gelato, avremo di sicuro molta strada da fare. 

 

Pride: vedere fieramente il mondo a colori

Il simbolo del “Gay Pride”, di cui sicuramente avrete sentito parlare, è una bandiera a colori. Interrogarsi sul significato dei simboli aiuta sempre a capire qualcosa in più riguardo a ciò che ci circonda. La valenza di questo simbolo è duplice: da un lato richiama la bandiera mondiale simbolo della Pace, a indicare “l’innocuità” della comunità LGBT+ che chiede davvero una cosa estremamente “innocente”, ovvero come già detto il rispetto della loro libertà che, almeno in Italia secondo la nostra costituzione, dovrebbe essere garantito ad ogni cittadino e cittadina in quanto persona. Anche i modi di chiedere il rispetto dei diritti sono estremamente pacifici, con manifestazioni non violente e campagne di sensibilizzazione. Il secondo aspetto del simbolo del pride è forse più su libera interpretazione: la bandiera colorata. Di sicuro i vari colori rappresentano la diversità, ai nostri occhi rappresentano la bellissima e vivace diversità che colora il mondo e lo rende un posto unico, meraviglioso, irripetibile (proprio come ogni singolo individuo) in cui ognuno è libero di dare il suo contributo, libero di seguire la propria natura e i propri “gusti”, libero di dare la sua personalissima pennellata di colore. La diversità è colore e la comunità LGBT+ l’ha capito bene, molto prima di tutto il resto del mondo, ed è molto fiera (pride appunto) di condividere questo messaggio con chi ancora non ci è arrivato. 

Accettare il proprio corpo

L’importanza del corpo

L’era digitale che caratterizza questo modo governato dai social network ci impone, molto più rispetto che in passato, di prestare attenzione ad un elemento imprescindibile nella nostra vita e nella nostra quotidianità: il nostro corpo. Il corpo è ci accompagna e noi accompagniamo lui: è proprio per questo motivo che è importante prestarvi le giuste cure ed attenzioni.  Un’alimentazione sana, uno stile di vita attivo, delle “coccole” che possiamo concederci (massaggi, scrub, fanghi, trattamenti elasticizzanti e chi più ne ha più ne metta), sono tutte buone abitudini per mantenere un corpo sano e (soprattutto) bello! Ebbene si, purtroppo il fine ultimo di tutte queste attenzioni e cure per moltissime persone è oggi il “bello”. Viene, infatti, considerato più importante sulla scala gerarchica delle priorità rispetto alla salute: apprezzare il proprio corpo dal punto di vista estetico (ma soprattutto far sì che gli altri possano apprezzarlo!) viene prima dell’avere un corpo in salute. Ma, quanto malessere (psichico) può celarsi dietro un corpo apparentemente perfetto? 

 

Il “bello” è relativo

Corpo “bello” e “Salute” non sono sinonimi e non sono indissolubilmente connessi. Perché? In primis: il bello è relativo. Ogni epoca ha il suo concetto di bellezza, nell’epoca odierna complici anche i social network e la nuova “moda” del fitness, corpi belli sono corpi atletici, muscolosi, definiti, senza un filo di grasso, in una parola “perfetti”. Le persone che possono avere per “costituzione” naturale questo tipo di corpo rasentano lo 0% della popolazione mondiale: nessun essere umano, senza una dieta controllata ed un allenamento assiduo può avere il corpo che siamo abituati a vedere degli influencer di instagram e dei social in generale. Oggi in particolar modo, a differenza di quello che qualche personaggio dello spettacolo vorrebbe (maldestramente) farci credere, quella che è considerata la bellezza non può “capitare”, va ricercata e mantenuta, in modo assiduo e costante. Si ha una smodata ed asfissiante ricerca della perfezione corpo.  Perché? A cosa ci serve un corpo perfetto? La società risponde: a tutto! Il messaggio che la stragrande maggioranza della popolazione, specie tra le fasce più giovani, riceve quotidianamente è: il bello ha successo (e il successo nella moderna società narcisistica è la linfa vitale di cui ci nutriamo). 

 

Ad ogni sesso la sua bellezza

Confrontiamo quotidianamente i nostri corpi con l’ideale di bellezza perfetta a cui siamo (sovra)esposti quotidianamente. Come possiamo sentirci al riguardo? La maggior parte delle persone, anche quelle che riescono oggettivamente a raggiungere buoni risultati tramite palestra/sport e alimentazione, si sentono insoddisfatte. C’è sempre quel dettaglio che si può migliorare, quel centimetro di troppo, quel muscolo troppo poco definito. Perché questo ha un impatto molto forte e molto negativo sul nostro benessere psichico? Perché nella società delle apparenze, l’apparenza è ciò che conta, il corpo è il nostro “biglietto da visita” e la bilancia con cui pensiamo il nostro valore. Probabilmente questa visione sembra esagerata in riferimento alle generazioni più adulte, ma, dai 30 anni in giù, più diminuisce l’età più si fa pesante il carico della perfezione estetica.  Questa preoccupazione, nelle generazioni giovani, è abbastanza “democratica”: è importantissima tanto per le ragazze quanto per i ragazzi. L’ideale di bellezza chiaramente si adatta al sesso: nelle donne lo stereotipo di genere della femminilità si abbina a corpi snelli, esili, tonici ma non forzuti, magri e “delicati”; negli uomini lo stereotipo di genere impone virilità quindi corpi muscolosi, definiti, forti. C’è un luogo virtuale, in particolare, in cui l’importanza attribuita al corpo è evidente in tutta la sua forza: le app di dating. Le app hanno lo scopo di mettere in contatto persone interessate a intraprendere relazioni sentimentali e/o sessuali, è quindi, forse, ovvio che mettano in primo piano il corpo. Lo è ancora di più per un gruppo di persone in particolare: gli uomini omosessuali. Perché?

 

L’hegemonic masculinity

I ragazzi omosessuali, in generale, tendono a usare di più le app di dating rispetto ai coetanei eterosessuali e rispetto alle ragazze. Il profilo “tipico” del ragazzo su Grindr (una delle app di dating maggiormente utilizzata dalle persone omosessuali) è un ragazzo atletico, muscoloso, che esibisce il corpo e lo ostenta, facendone di fatti il suo punto di forza e il suo biglietto da visita con altri potenziali partner.  La nostra società, oltre a dare molto peso alle apparenze in modo indiscriminato, fa sì che il corpo, e quindi la sessualità, diventino l’unico strumento di cui possono servirsi molti ragazzi omosessuali che non hanno accettato appieno il proprio orientamento sessuale: la società discriminatoria insinua nel ragazzo un pensiero rifiutante rispetto all’omosessualità e la associa a un’espressione di genere femminile. Una delle possibili conseguenze è quella di mettere in atto dei meccanismi compensatori per accettarsi: essere “più maschio”. Come fare? Proprio con l’ostentazione del corpo e con il servirsene per instaurare relazioni sessuali, per attrarre. È, quindi, grazie alla mascolinità e all’apparenza del corpo perfetto che si riesce a conquistare l’apprezzamento dell’altro e questo è funzionale a compensare il senso di inadeguatezza, forse anche inconsapevole, che si prova a causa del proprio orientamento sessuale (o meglio a causa del fatto che la società discrimina il proprio orientamento sessuale). Questo meccanismo, apparentemente complesso, ha un nome ben preciso: hegemonic masculinity. Prevede che gli uomini rappresentino il proprio essere “maschi” con caratteristiche stereotipiche di forza e virilità, ostentandole per compensare un implicito senso di colpa derivante dall’essere gay. 

Ruoli di genere:
la persona
si adatta al ruolo
o il ruolo alla persona?

Fiocco rosa o fiocco blu

Se in famiglia avete di recente accolto una nuova nascita saprete benissimo che già durante la gravidanza e in rari casi al momento della nascita (quando si vuole “la sorpresa”), la prima domanda in assoluto è: maschietto o femminuccia? La prima informazione che vogliamo riguardo a una nuova persona che viene al mondo è il suo sesso. Ci siamo mai chiesti come mai? Il sesso di una persona rientra in tutte quelle etichette che automaticamente attribuiamo alle persone per decidere “velocemente” come interfacciarci con esse, cosa aspettarci dal loro comportamento. Questa etichetta automatica non rientra però nel sesso biologico, che essendo appunto biologico è “inequivocabile” (tranne in alcuni rare eccezioni mediche, le condizioni di ermafroditismo), ma in un costrutto sociale, una convenzione che abbiamo “inventato” nel corso dei secoli e grazie alla nostra cultura: il ruolo di genere. Il ruolo di genere è, insieme al sesso biologico, l’identità di genere e l’orientamento sessuale una delle quattro componenti della sessualità, una delle parti cioè che definisce la nostra identità dal punto di vista sessuale. Come dicevamo è una convenzione sociale e infatti a culture diverse corrispondono ruoli di genere diversi, comprende infatti i comportamenti socialmente attribuiti alle persone in base al loro genere. 

 

Costruire i ruoli di genere fin dall’infanzia

I ruoli di genere, essendo convenzioni sociali, si costruiscono nella storia filogenetica, cioè la Storia (con la S maiuscola), la storia della specie e dell’evoluzione degli esseri umani sulla base anche dei cambiamenti culturali e si costruiscono nella storia ontogenetica ovvero la storia di vita e di sviluppo di ciascun singolo individuo. La cultura ci plasma con una connotazione ben precisa dei ruoli dei generi fin da piccoli. Riusciamo a pensare a un esempio? Cosa contraddistingue l’età infantile? Cosa fanno i bambini che da grandi, purtroppo, smettiamo spesso di fare? Giocano! Proprio nel gioco si ha già un esempio di netta distinzione basata sui ruoli di genere: ai maschi calcio e macchinine, alle femmine danza e bambole. Questo è solo un esempio ma potremmo farne moltissimi altri: sul piano estetico (ai maschi il blu, alle femmine il rosa), sul piano scolastico (ai maschi compiti logico-matematici, si promuove l’intelligenza pratica; alle femmine i compiti narrativi e riflessivi, si promuove l’intelligenza emotiva) sul piano “caratteriale” (alla femminilità è associata la delicatezza, alla mascolinità la forza). Non vi abbiamo ancora convinto che i ruoli di genere siano una convenzione sociale? 

Provate a osservare dei bambini abbastanza piccoli, 3-4 anni, o se ci riuscite provate a ricordare voi stessi da bambini: è molto probabile che si desiderino nella propria infanzia i giochi della sorella, della cugina, dell’amichetta di asilo ed è altrettanto probabile che se siete dei maschi i vostri genitori vi abbiano impedito l’accesso a quei giochi, sostituendoli con altri più “appropriati”. Ma appropriati per chi? Per la società, ovviamente. Ogni genitore desidera vedere il proprio figlio felice e ben inserito nel contesto sociale, per potersi inserire sono necessarie però delle regole, attenersi a degli standard. Gli standard dei ruoli di genere sono quelli più chiaramente comunicati e di conseguenza interiorizzati tra le varie convenzioni sociali. 

 

Ruolo di genere: come devi essere e come non devi essere

“Non si mangia con la bocca aperta”, “si ringrazia sempre”, “non si va in giro nudi” “non si assume un ruolo femminile se si è maschi e viceversa”. Cosa hanno in comune queste quattro affermazioni (o imperativi)? Sono convenzioni sociali, le regole che dobbiamo rispettare per vivere bene nel contesto comunemente condiviso tra gli esseri umani. Cosa hanno invece di diverso? Le prime due sono regole sociali esplicite, si insegnano in modo chiaro ai bambini, sono frasi che realmente si pronunciano; le ultime due sono invece prevalentemente implicite, i bambini le apprendono non tanto perché qualcuno le dica ma perché le interiorizzano in modo indiretto dall’ambiente. Non si vede infatti nessuno andare in giro nudo per strada così come si valuta molto negativamente una persona che assume comportamenti attinenti al ruolo di genere del sesso opposto (quante volte ancora oggi sentiamo pronunciare frasi come “non piangere come una femminuccia?”). Purtroppo, già da bambini i maschi vengono spesso mortificati e sviliti se esprimono il desiderio di assumere un ruolo femminile (ad esempio fare danza o vestirsi di rosa), così come le femmine vengono fortemente ostacolate se esprimono il desiderio di assumere un ruolo maschile (ad esempio giocare a calcio). Non si dice in modo diretto “devi attenerti al tuo ruolo di genere”, ma la comunicazione arriva comunque forte e chiara! Il ruolo di genere viene quindi interiorizzato non solo perché passa il messaggio di quanto sia negativo assumere il ruolo del genere opposto, ma anche di quanto sia positivo e di valore assumere i ruoli del proprio genere (le bambine vengono quindi elogiate quando aiutano la mamma ad apparecchiare la tavola mentre i bambini vengono elogiati quando hanno successo nel loro sport). Questa comunicazione, molto chiara, arriva non solo dai genitori, che attuano questi comportamenti per proteggere i propri figli da uno stigma sociale e da una derisione da parte dei coetanei (veicolano quindi il messaggio “in buona fede”), ma arriva anche dagli insegnati, dagli allenatori, dalle pubblicità che vedono in tv, a volte anche dai cartoni animati.  

 

Interiorizzazione: la macchia d’erba sui jeans

Il ruolo di genere viene interiorizzato fin dalla prima infanzia. Per intenderci quando parliamo di interiorizzazione è un processo che può essere paragonato alle macchie di erba fresca sui jeans: specialmente se siete donne, saprete benissimo che è davvero difficile rimuovere una macchia di erba dai jeans, potrete lavarli all’infinito, un piccolo alone resterà sempre. Così funzionano le interiorizzazioni e così funzionano i ruoli di genere: permangono ben saldi per tutta la vita dell’individuo, continuando a prescrivere “come comportarsi” praticamente in ogni ambito. Parlavamo di lavatrici e donne… questo è esattamente ciò che si intende per ruolo di genere (anche abbastanza stereotipato, a dire la verità): le donne fanno le lavatrici, gli uomini no. Le donne gestiscono la casa e si occupano dei figli; gli uomini si concentrano sul lavoro. Questa divisione dei ruoli di genere è estremamente radicata nella nostra cultura e trova le sue origini in un modello di famiglia che era prevalente negli anni ’50, in cui gli uomini lavoravano in fabbrica e le donne accudivano i bambini. Continua a persistere oggi nonostante le famiglie e le loro esigenze, così come le esigenze dei singoli, siano estremamente diverse!

 

“Bastava chiedere”

Le necessità di uomini e donne sono cambiate oggi rispetto a 70 anni fa. Eppure continua a persistere una divisione dei ruoli di genere, nell’immaginario comune, prevalentemente basata sui ruoli che erano propri degli anni ‘50. Questo ha un forte impatto nella vita delle persone: in ambito lavorativo ci si aspetta che le donne investano meno sulla carriera rispetto agli uomini e vengono considerate come meno adatte a ruoli dirigenziali e di responsabilità; in ambito sportivo si hanno classifiche, competizioni, addirittura attrezzature diverse per uomini e donne, nonostante sia stato dimostrato da vari studi come le presunte prestazioni inferiori delle donne siano dovute in misura molto maggiore a stereotipi sociali e aspettative di “fallimento” nei confronti delle donne e non invece a reali “limiti” fisici di quest’ultime (Chalabaev et al., 2013); in ambito familiare, infine si parla molto ultimamente di carico mentale o domestico a cui sono sottoposte le donne. Riguardo all’ultimo aspetto in particolare, è diventato virale il fumetto “bastava chiedere” di Emma, blogger femminista francese, trasposto anche in libro nel nostro paese, che illustra cosa sia il carico mentale delle donne: la pressione a cui ogni donna in una coppia stabile è sottoposta, il doversi fare carico appunto della gestione in toto della casa e della vita familiare e di coppia. I compiti affidati culturalmente alle donne riguardano davvero ogni singolo aspetto di vita pratica: fare le lavatrici, accompagnare i bambini, fare la spesa e cucinare, pulire casa, pagare le bollette, organizzare le vacanze e le uscite a cena con gli amici; insomma uno stress senza fine, a cui si aggiunge chiaramente lo stress lavorativo di cui spesso gli uomini si “lamentano” anche molto più delle donne. Questi compiti sono automaticamente affidati alle donne, tant’è che gli uomini quasi si stupiscono alle disperate richieste di collaborazione delle loro compagne, esordendo spesso appunto con un lapidario “bastava chiedere”. Si percepiscono come esecutori di compiti affidatigli in via temporanea dalle compagne, principi che salvano la principessa dai suoi obblighi (e spesso si aspettano anche riconoscenza e gratitudine per questo immenso sforzo). Hanno un ruolo del tutto passivo e per niente proattivo e collaborativo nella gestione domestica e questo non dipende affatto da loro, ma da ciò che la cultura e la società li ha portati a interiorizzare. Il “bastava chiedere” può essere considerato, a nostro avviso, come una forma molto sottile di sessismo benevolo, cioè quella forma di sessismo più difficile da identificare, celato, che attribuisce alle donne non apertamente caratteristiche negative di inferiorità e sottomissione ma caratteristiche di fragilità, necessità di protezione, necessità di un uomo. La donna che, infatti, “esaurita” la sua forza interna e le sue risorse energetiche chiede la collaborazione dell’uomo è percepita da questo come una creatura fragile, bisognosa del suo supporto, del suo intervento che “la salvi”. La maggior parte degli uomini, fortunatamente non tutti (attenzione sempre a non generalizzare!) percepisce i doveri domestici come relegati alla donna e il suo contributo è quindi un favore, una salvezza per la donna che, fragile, non sa gestire i suoi compiti, qualcosa che è necessario chiedere perché non è scontato. 

I ruoli di genere, in conclusione, ci possono aiutare a identificarci con un’idea condivisa, a capire cosa ci si aspetta da noi ma purtroppo sempre più di frequente nella società odierna hanno la pericolosa tendenza a diventare gabbie: devono essere flessibili e adattarsi ai cambiamenti nelle esigenze di vita di uomini e donne, alla tendenza verso una parità tra generi, adattarsi alle esigenze di famiglie (al plurale, perché sono vari i tipi) e di singoli; questa flessibilità può essere data solo da una mentalità plastica e malleabile, di gomma e non di ferro cosicché possa essere il ruolo ad adattarsi alla persona e non la persona ad adattarsi al ruolo.

Discriminazione sul lavoro:
di cosa si tratta?

Quali tipi di discriminazioni?

La discriminazione è una disparità di trattamento che viene messa in atto nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come il sesso, l’età, l’etnia o l’orientamento sessuale. In tempi recenti si parla sempre più spesso e si ha più sensibilità nei confronti dei diritti della comunità LGBT+ in ambito lavorativo: si parla di diversity, di inclusion, di politiche aziendali “LGBT+ friendly” e così via. Tutto ciò è molto positivo ed è un concreto tentativo da parte di molte aziende a combattere la discriminazione, quella esplicita in particolar modo.

 La discriminazione infatti è di diversi tipi: è diretta nel momento in cui si attua un trattamento diverso nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come l’orientamento sessuale; è invece indiretta quando criteri apparentemente “neutri” mettono in svantaggio lavoratori LGBT+. La peggior forma di discriminazione è infine la molestia: comportamenti aggressivi, ostili, umilianti o offensivi volti a violare la dignità di una persona. 

Se, come dicevamo, moltissime aziende a livello globale oggi si impegnano attivamente a combattere le discriminazioni dirette e le molestie, è meno difficile agire nel campo delle discriminazioni indirette, innanzitutto perché sono discriminazioni molto più difficili da individuare e riconoscere. 

 

Un esempio di discriminazione indiretta

Per le aziende e per i lavoratori stessi è spesso molto difficile riconoscere quali possano essere delle discriminazioni indirette nei confronti di lavoratori LGBT+. Un esempio riguarda il congedo parentale: gli uomini, ad esempio, possono richiedere il congedo parentale per un periodo di 6 mesi successivi alla nascita del figlio.  Pensando ad una coppia di uomini, si possono ritenere sufficienti 6 mesi (considerati scarsi anche per i padri eterosessuali), considerando che già una parte di essi potrebbe essere impiegata nel viaggio di ritorno dall’estero (dove per necessità le coppie omosessuali fanno nascere i figli, grazie alla maternità surrogata)? Ciò è valido ovviamente anche per le coppie di donne: solo la donna che partorirà, tramite PMA (procreazione medicalmente assistita), avrà diritto, almeno inizialmente, al congedo per maternità. Sebbene esista la possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale, l’iter legislativo è davvero lungo, oltre che molto oneroso in termini giuridici e psicologici. Le politiche aziendali, quindi, nella prima fase della neo-vita genitoriale ma probabilmente anche dopo, andranno inevitabilmente a intaccare i lavoratori omosessuali con figli. 

Questo è un chiaro esempio di discriminazione indiretta poiché una politica apparentemente neutrale come il congedo parentale discrimina di fatto un insieme di lavoratori. Pensando ad una ipotetica soluzione al problema specifico è chiaro che non sia immediata e neanche di facile realizzazione: il problema di questo tipo di discriminazioni, spesso, non è tanto dell’azienda in sé, quanto del tessuto sociale in senso più ampio, è un problema politico e legislativo. Cosa possono fare, allora, nel concreto le aziende? 

 

Come il welfare aziendale può ridurre le discriminazioni

Di certo, la singola azienda non ha il potere di riformare la legislazione italiana ma può fare molto per i suoi lavoratori, come per esempio creare delle politiche di welfare aziendale che tutelino tutti i lavoratori, anche quelli appartenenti a delle minoranze. 

Nell’esempio di genitori omosessuali, specie nelle prime fasi di vita del bambino, una cosa molto importante che l’azienda può fare è mostrare il suo sostegno e il suo incoraggiamento al proprio dipendente. Anziché un atteggiamento “neutrale”, potrebbe essere positivo riconoscere la singolarità del caso, non trattare il lavoratore come se fosse “uno dei tanti” ma trattandolo nello specifico della sua persona, con i suoi bisogni e necessità. 

Un esempio di supporto molto importante potrebbe essere incentivare lo smart working, il lavoro da casa, o dare la possibilità per un periodo limitato di tempo di ridurre il monte di ore lavorative senza penalizzazioni per la futura progressione di carriera.  Le aziende traggono grande vantaggio dal benessere dei propri lavoratori, per incentivarlo è importantissimo limitare al massimo fino ad eliminare del tutto atteggiamenti discriminatori, prestando attenzione all’individuo e alle sue necessità, in primis come singolo e in secondo luogo come parte di una minoranza.

Congedo di paternità:
una vera necessità?

Congedo di maternità e paternità

Il congedo obbligatorio per neo-genitori cambia molto nei due sessi. Le donne, in Italia, hanno un congedo obbligatorio di 5 mesi da distribuire prima e dopo il parto; gli uomini hanno un congedo obbligatorio di 7 giorni (dal 2020, fino all’anno precedente era di un massimo di 5 giorni).  Si potrebbe discutere sull’adeguatezza delle tempistiche, se siano effettivamente compatibili alle necessità di un neonato e di un neo-genitore. Le madri hanno bisogno, nell’immaginario comune, di più tempo, in primis perché affrontano il parto che è fisicamente molto impegnativo e ha dei tempi di recupero del tutto individuali e, in secondo luogo, perché sono ritenute le principali figure di accudimento: si occupano del bambino di più rispetto ai padri. Da qui la forte disparità nel tempo concesso. 

Ma sarà realmente così? Quest’idea deriva da un fattore culturale più che dalle reali esigenze e necessità di un bambino. Complici le teorie psicologiche di inizio ‘900, per lungo tempo si è ritenuto che le madri fossero imprescindibili, più importanti dei padri nell’accudimento dei bambini. Questa è una convinzione erronea che non ha nessun fondamento scientifico. La classica frase “i bambini hanno bisogno di una mamma” è semplicemente uno stereotipo, una credenza popolare. I bambini, piuttosto, hanno bisogno di persone che sappiano accudirli e rispondere ai loro bisogni: la caratteristica imprescindibile non è essere donna ma avere determinate “competenze”, pratiche e psicologiche. Se si fosse consapevoli di questo concetto, supportato da evidenze scientifiche, si potrebbe capire come sia assurda una tale disparità di trattamento nel congedo parentale, discriminante in effetti per gli uomini

 

Congedo di paternità x2 

Il diritto di un padre di dedicare il suo tempo al figlio appena nato e viceversa il diritto dei bambini ad essere accuditi dai propri padri nelle prime fasi di vita non è esattamente garantito e tutelato nel nostro paese, così come in molti altri. La questione cruciale, come si diceva, è che questi non vengono percepite come delle necessità, come dei bisogni e quindi come dei diritti. È considerato “normale” che un padre rientri a lavoro con un figlio di pochi giorni.  Se questo può essere un effettivo problema, emotivo e logistico, per moltissime coppie di giovani che, ad esempio, emigrando in altre regioni per questioni lavorative non hanno a disposizione il sostegno della famiglia allargata, pensiamo a quanto possa essere problematico per una coppia omosessuale di due uomini! Sommando la paternità di entrambi si ottiene un tempo di due settimane. Davvero una tempistica avvilente, sia per due neo-genitori e per un neonato. 

L’inevitabile conseguenza è che la coppia dovrà decidere chi dei due debba (o possa) prendersi un periodo di pausa dal lavoro, con un carico di frustrazione per entrambi inevitabile. Questo diventa un rischio, sia per il compito genitoriale sia per il futuro rientro a lavoro. Come le aziende ben sanno un lavoratore efficiente è un lavoratore sereno; una persona che si ritrova costretta a lasciare anche solo per un periodo di tempo il suo lavoro al suo rientro avrà un’insoddisfazione e una frustrazione nei confronti del “sistema”, dello stato e perché no, dell’azienda, che inevitabilmente inciderà anche sulla sua performance lavorativa.  A prescindere da quanto le politiche aziendali siano attente alle tematiche LGBT+, è importante evidenziare che qualunque persona, nel momento in cui diventa genitore, a prescindere dal sesso e dall’orientamento sessuale, sente il bisogno di dedicare del tempo a suo figlio. Quando ciò non è possibile o è fortemente ostacolato questa persona potrebbe incontrare diverse difficoltà e porterà inevitabilmente lo stress emotivo all’interno del suo lavoro.

Cosa fare se si ha subito
outing a lavoro?

Cosa può succedere se un collega ti fa outing?

L’outing consiste nel rivelare l’omosessualità di un’altra persona senza il suo consenso. Una persona che “fa” outing, quindi, in realtà lo subisce perché non è un gesto che deriva dalla propria consapevolezza e volontà, come lo è invece il coming out, ma deriva invece dalle azioni (più o meno coscienti) di un’altra persona. 

Può accadere che l’outing accada in ambito lavorativo e ciò può essere davvero destabilizzante e doloroso. In primis, si può percepire una forte violazione della propria intimità e riservatezza. Rivelare il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere senza il proprio consenso significa portare sul lavoro degli aspetti molto personali, che nulla hanno a che fare con la propria attività lavorativa.

 

Due “tipologie” di outing

La prima “tipologia” di outing avviene quando una persona, sapendo che l’omosessualità di un/a collega è “segreta” decide consapevolmente di rivelarla ad altri colleghi o al capo, nella sua ottica per nuocere all’immagine di questa seconda persona. Si tratta, quindi, di un gesto che ha un intento malevolo. Non è infrequente, purtroppo, che l’outing porti, in seguito, a discriminazioni velate e indirette come l’impossibilità di progressione di carriera o più dirette come il licenziamento.  In questa particolare situazione, l’outing è quindi assimilabile al mobbing, cioè un comportamento abusante, aggressivo e volto ad arrecare un danno. L’intenzione di nuocere rende questa tipologia di outing davvero molto dolorosa per la persona che la subisce e forti possono essere le conseguenze in ambito lavorativo: difficoltà a interagire e collaborare con i colleghi spesso ostili dopo l’outing, un aumento dello stress lavoro correlato fino ad arrivare alla sindrome del burn out, in cui si percepisce un vero e proprio esaurimento a causa della situazione lavorativa, percepita come insostenibile.

Nel secondo caso, invece, l’outing effettivamente accade “per sbaglio”: una persona non si rende pienamente conto di ciò che sta facendo, ad esempio perché non sa che quella informazione è “segreta” quindi in effetti rivela ad altri l’orientamento sessuale o l’identità di genere di un collega, senza voler arrecare un danno.  In questo caso, i vissuti della persona che subisce l’outing possono essere simili: paura per eventuali discriminazioni e ripercussioni lavorative, probabilmente vergogna, perché è come se uno degli aspetti più intimi di sé, che non si era magari ancora pronti a rivelare, fossero ormai stati serviti su un piatto d’argento. Inoltre, la sensazione può essere quella essere vulnerabili, di essere stati traditi e violati.

In realtà, spesso la persona che ha fatto outing inconsapevolmente può anch’essa provare sentimenti molto negativi in quanto può percepire di avere leso il proprio collega e di aver inficiato non solo il rapporto lavorativo con lui, ma anche quello umano. Potrebbe provare un forte senso di colpa per aver tradito la fiducia riposta in lui, anch’esso vergogna per l’atto commesso, sicuramente dispiacere. 

 

Cosa fare quando si subisce outing sul posto di lavoro?

Se ti sei trovato in questa situazione, saprai che non è facile riuscire ad affrontarla. Infatti, se si subisce outing spesso ciò significa che non si è ancora “out” e quindi si è ancora alle prese con l’accettazione della propria diversità in ambito sessuale. Essere in difficoltà non l’accettazione di sé può rendere più complesso affrontare l’outing.

Può essere importante partire da te e chiederti: “quanto potrà cambiare il modo in cui verrò percepito ora che i miei colleghi sanno chi realmente sono?”. Probabilmente, poco. Potrebbe sembrarti inizialmente “moltissimo” la risposta corretta e ciò è perfettamente naturale: la carica affettiva spesso riposta nel proprio coming out ancora non compiuto è molto elevata e potresti essere molto attivato a livello emotivo, trattandosi di un aspetto così intimo di te. Spesso, quando si provano emozioni molto forti tendiamo a guardare alla realtà in modo peggiore rispetto a come realmente è. Acquisita la consapevolezza di com’è la situazione reale, tenendo un attimo da parte i forti sentimenti, è possibile iniziare a elaborare quanto successo. 

Se hai subito outing “inconsapevole”, potrebbe essere una buona idea parlare e chiarirti con il collega che lo ha svelato a tua insaputa. Come abbiamo visto, anche lui potrebbe percepire dei sentimenti di colpa nei tuoi confronti. Ripartire dalle vostre emozioni può essere una modalità iniziale per affrontare la situazione che si è creata. Se hai subito outing in ottica malevola, puoi indirizzarti ai colleghi con cui hai più confidenza o il tuo capo per raccontargli ciò che hai subito. Parlare con loro delle tue emozioni e di come ti sei sentito potrà farti sentire maggiormente accolto e protetto. Ci sono dei casi in cui la situazione è davvero molto complessa da affrontare da soli e in tal caso è possibile eventualmente affrontare un percorso di psicoterapia per gestire le conseguenze dell’outing.

Coming out a lavoro

Coming out, cioè “Uscire allo scoperto” 

Immaginiamo che, in un giorno qualunque di lavoro in ufficio, il collega seduto alla scrivania di fronte a noi richiami l’attenzione di tutti per comunicare, “ufficialmente” e solennemente il suo orientamento sessuale: “Cari colleghi, io sono gay!”. Sembra forse più una scena da film che un episodio di vita reale, quasi grottesca se contestualizzata alla quotidianità. È molto difficile, infatti, che il coming out sul luogo di lavoro, o in generale in altri contesti di vita, avvenga in questo modo. Coming out significa letteralmente “venire fuori, uscire allo scoperto” e proviene dall’espressione “coming out of the closet”, cioè uscire dall’armadio, svelando la propria identità sessuale.

Le parole sono sempre importanti: nella nostra cultura e nella nostra società, implicitamente, si assume che chi dichiara la propria omosessualità abbia un segreto da custodire e finalmente decide di rivelarlo. In realtà, se non esistesse discriminazione verso le persone con un’identità sessuale non maggioritaria, fare coming out non sarebbe considerata come sopracitato. In Italia oggi, le politiche antidiscriminatorie e attente a tematiche LGBT+ nelle aziende non costituiscono la norma, ma un “vanto”, qualcosa su cui l’azienda può fare leva per sottolineare la propria apertura. 

 

Perché può essere importante fare coming out sul lavoro?

Moltissimi sono gli studi e le pubblicazioni scientifiche che sostengono che un benessere a 360° del lavoratore abbia benefici sull’attività lavorativa, aumentando in modo indiretto la produttività e gli utili delle aziende. Il meccanismo non è difficile da intuire: una persona che sul luogo di lavoro è serena, sotto ogni punto di vista, lavorerà meglio. È molto probabile, quindi che una persona abbia l’esigenza di condividere con i colleghi con cui lavora a stretto contatto e al proprio capo il proprio orientamento sessuale, per accertarsi che non sia qualcosa che possa intaccare la serenità di tutti, i rapporti tra i lavoratori e in generale il clima lavorativo.  Nonostante ciò il coming out è una scelta personale, nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a fare coming out sul luogo di lavoro. L’orientamento sessuale, infatti, non può e non deve incidere in alcun modo in nessun tipo di lavoro e di mansione, è una dimensione privata e intima che esula dall’attività lavorativa.

 

Come si può fare coming out sul lavoro?

Prendere la decisione di fare coming out sul lavoro può essere complesso e diverse sono le variabili da tenere in considerazione. Innanzitutto, è importante ascoltarsi: è il momento giusto? Mi sento pront*? Sento che l’ambiente di lavoro è pronto per accogliere le mie parole? Non esiste un momento perfetto per decidere di farlo, esiste solo il tuo momento, quello in cui ti senti a tuo agio nel parlarne.  

Poi, è importante valutare il tuo ambiente lavorativo. Chiediti come pensi che potrebbero reagire al tuo coming out. Ti aspetti un trattamento lavorativo uguale a prima o diverso dopo il coming out? Se il clima aziendale è positivo, questo può essere un aspetto che tende a facilitare il processo, in quanto si può percepire una maggiore sicurezza psicologica. Fondamentale è anche il tuo rapporto con i colleghi: percepisci da parte loro ostilità o, al contrario, appoggio? Potrebbe, nell’ultimo caso, essere un’opzione quella di iniziare a parlarne con i colleghi più fidati e che potrebbero accogliere meglio il tuo coming out.  Compiere il processo del coming out per gradi potrebbe essere un grande aiuto a rispettare i tuoi tempi. E’ importante tenere a mente queste variabili in quanto fare coming out su un luogo di lavoro non supportivo potrebbe, al contrario, peggiorare la qualità del proprio vissuto lavorativo.