Discriminazione sul lavoro:
di cosa si tratta?

Quali tipi di discriminazioni?

La discriminazione è una disparità di trattamento che viene messa in atto nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come il sesso, l’età, l’etnia o l’orientamento sessuale. In tempi recenti si parla sempre più spesso e si ha più sensibilità nei confronti dei diritti della comunità LGBT+ in ambito lavorativo: si parla di diversity, di inclusion, di politiche aziendali “LGBT+ friendly” e così via. Tutto ciò è molto positivo ed è un concreto tentativo da parte di molte aziende a combattere la discriminazione, quella esplicita in particolar modo.

 La discriminazione infatti è di diversi tipi: è diretta nel momento in cui si attua un trattamento diverso nei confronti di una persona a causa di una sua caratteristica come l’orientamento sessuale; è invece indiretta quando criteri apparentemente “neutri” mettono in svantaggio lavoratori LGBT+. La peggior forma di discriminazione è infine la molestia: comportamenti aggressivi, ostili, umilianti o offensivi volti a violare la dignità di una persona. 

Se, come dicevamo, moltissime aziende a livello globale oggi si impegnano attivamente a combattere le discriminazioni dirette e le molestie, è meno difficile agire nel campo delle discriminazioni indirette, innanzitutto perché sono discriminazioni molto più difficili da individuare e riconoscere. 

 

Un esempio di discriminazione indiretta

Per le aziende e per i lavoratori stessi è spesso molto difficile riconoscere quali possano essere delle discriminazioni indirette nei confronti di lavoratori LGBT+. Un esempio riguarda il congedo parentale: gli uomini, ad esempio, possono richiedere il congedo parentale per un periodo di 6 mesi successivi alla nascita del figlio.  Pensando ad una coppia di uomini, si possono ritenere sufficienti 6 mesi (considerati scarsi anche per i padri eterosessuali), considerando che già una parte di essi potrebbe essere impiegata nel viaggio di ritorno dall’estero (dove per necessità le coppie omosessuali fanno nascere i figli, grazie alla maternità surrogata)? Ciò è valido ovviamente anche per le coppie di donne: solo la donna che partorirà, tramite PMA (procreazione medicalmente assistita), avrà diritto, almeno inizialmente, al congedo per maternità. Sebbene esista la possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale, l’iter legislativo è davvero lungo, oltre che molto oneroso in termini giuridici e psicologici. Le politiche aziendali, quindi, nella prima fase della neo-vita genitoriale ma probabilmente anche dopo, andranno inevitabilmente a intaccare i lavoratori omosessuali con figli. 

Questo è un chiaro esempio di discriminazione indiretta poiché una politica apparentemente neutrale come il congedo parentale discrimina di fatto un insieme di lavoratori. Pensando ad una ipotetica soluzione al problema specifico è chiaro che non sia immediata e neanche di facile realizzazione: il problema di questo tipo di discriminazioni, spesso, non è tanto dell’azienda in sé, quanto del tessuto sociale in senso più ampio, è un problema politico e legislativo. Cosa possono fare, allora, nel concreto le aziende? 

 

Come il welfare aziendale può ridurre le discriminazioni

Di certo, la singola azienda non ha il potere di riformare la legislazione italiana ma può fare molto per i suoi lavoratori, come per esempio creare delle politiche di welfare aziendale che tutelino tutti i lavoratori, anche quelli appartenenti a delle minoranze. 

Nell’esempio di genitori omosessuali, specie nelle prime fasi di vita del bambino, una cosa molto importante che l’azienda può fare è mostrare il suo sostegno e il suo incoraggiamento al proprio dipendente. Anziché un atteggiamento “neutrale”, potrebbe essere positivo riconoscere la singolarità del caso, non trattare il lavoratore come se fosse “uno dei tanti” ma trattandolo nello specifico della sua persona, con i suoi bisogni e necessità. 

Un esempio di supporto molto importante potrebbe essere incentivare lo smart working, il lavoro da casa, o dare la possibilità per un periodo limitato di tempo di ridurre il monte di ore lavorative senza penalizzazioni per la futura progressione di carriera.  Le aziende traggono grande vantaggio dal benessere dei propri lavoratori, per incentivarlo è importantissimo limitare al massimo fino ad eliminare del tutto atteggiamenti discriminatori, prestando attenzione all’individuo e alle sue necessità, in primis come singolo e in secondo luogo come parte di una minoranza.

Cosa significa far parte
di una minoranza?

LGBT+… cosa significa?

Ormai nella società odierna è abbastanza conosciuta la sigla LBGT (abbastanza ma non del tutto, di sicuro non ancora come desidereremmo!) che sta per Lesbian, Bisexual, Gay, Transgender.  È, però, davvero molto poco conosciuta la sigla estesa: LGBTQIA+ ovvero quella a cui si aggiungono Queer, Intersexual, Asexual; il + indica tutti gli orientamenti sessuali e identità di genere fluide non contenute in queste categorizzazioni. L’acronimo tenta di dare un’idea di quella che è la comunità LGBT+, estremamente eterogenea. Il fatto che sia qualcosa di poco conosciuto può voler dire solo una cosa: non se ne parla abbastanza. In effetti, il ventunesimo secolo, è il primo momento storico in cui si inizia a parlare apertamente e con curiosità di tematiche come l’omosessualità, l’identità di genere non binaria, la transessualità, la disforia di genere, etc. Forse sorprenderà alcuni di voi sapere che solo nel 1990 (parliamo soltanto di 30 anni fa!) l’omosessualità è stata ufficialmente disconosciuta come malattia.

Perché non se ne parla ancora a sufficienza e di conseguenza non si conoscono le varie sfumature del “mondo” a colori (il mondo LGBT fa della bandiera arcobaleno il suo simbolo evidenziando appunto l’infinita gamma di aspetti che lo caratterizzano)? Probabilmente perché la maggior parte delle persone che vive oggi si è trovata, almeno per una certa parte della propria vita, in un’epoca storica in cui appunto omosessuali significava essere malati, avere un problema da dover risolvere. Le nuove generazioni non sono ancora abbastanza da permettere quel ricambio generazionale che “ripulisca il campo” totalmente dagli stereotipi e dai preconcetti errati. Fortunatamente, il cambiamento è in atto, dobbiamo solo avere un po’ di pazienza. 

Cosa possiamo fare nel frattempo? Parlarne, parlarne e parlarne ancora! Fare domande, indagare sui propri dubbi, avere un atteggiamento curioso non giudicante e privo da preconcetti che permetta di conoscere tematiche e aspetti a noi nuovi. Per fare ciò è importante partire “dalle basi”: il bisogno di conoscere e capire inizia spesso con il bisogno di “inquadrare” le persone, dare una definizione.

 

Etichette, etichette everywhere! 

Quando iniziamo a rapportarci con una nuova persona, il nostro cervello cerca automaticamente e senza che ce ne accorgiamo, di incasellarla in una o più delle categorie già presenti nel nostro cervello. Il nostro cervello discrimina? No, semplicemente fa “economia cognitiva”, ricorrendo a ciò che già conosce per capire il prima possibile di più su una persona nuova.  La tendenza a “etichettare” è un comportamento automatico, lo facciamo su qualunque cosa, è in realtà una strategia adattiva che permette di “risparmiare” tempo e risorse cognitive. In effetti, a pensarci bene, possiamo fare un esempio: per una donna omosessuale alla ricerca (consapevole o inconsapevole) di una partner è “utile” individuare donne eterosessuali il prima possibile, così da non “perdere tempo” a tentare un approccio che si rivelerebbe inconcludente. 

L’etichettamento riguardo all’orientamento sessuale però viene fatto da tutti in modo indiscriminato, a prescindere che si abbia un potenziale interesse sessuale o sentimentale nelle persone che etichettiamo. Perché lo facciamo? Molto semplice, perché siamo abituati a farlo. È un gesto tanto automatico quanto cercare l’interruttore per accendere la luce entrando in una stanza buia. La valenza è però la stessa dell’accendere la luce? Forse non proprio, forse anzi la valenza è opposta: spesso incasellare una persona in una etichetta non ci rende la situazione più chiara e “illuminata” ma paradossalmente ci oscura la vista.

 

“Voglio essere così: sicuro di me, libero, pride!”

Dicevamo che uno dei motivi per cui oggi non si conosce abbastanza la comunità LGBT+ è perché non se ne parla abbastanza. Aggiungiamo inoltre che quando lo si fa è per fatti negativi, per evidenziare episodi di discriminazione e violenze rivolte alle persone omosessuali, transgender, queer, etc. Le discriminazioni sono chiaramente un fatto tanto grave quanto purtroppo frequente, e per questo è necessario parlarne e condannare fermamente certi comportamenti. Sarebbe però altrettanto importante parlare di esempi positivi, di inclusione e non solo accettazione, ma valorizzazione della diversità. Abbiamo bisogno di esempi a cui poterci ispirare, modelli su cui poter pensare “voglio essere così così sicura/o, così libera/o, così Fiera/o!”; non a caso il Pride indica la fierezza, l’orgoglio di essere liberi di mostrarsi per quello che si è! 

Pensiamo che finché si parlerà di una comunità LGBT+, quindi di una minoranza, si starà marcando una diversità (noi-loro): l’ideale, forse utopistico, è che un giorno non dovremo più parlare di “comunità”, che questa differenza, soltanto numerica, non sia vista come diversità (in accezione negativa) ma come una semplice caratteristica individuale, una differenza come può esserlo il colore dei capelli. 

 

Sentirsi nell’abito “sbagliato”

Dicevamo come la comunità LGBT è, allo stato attuale, una minoranza. Cosa significa far parte di una minoranza? Proviamo a rifletterci partendo da un esempio molto banale: siete invitati a una festa in un luogo che credete sia un locale molto alla moda, elegante; come vi vestirete? Presumibilmente in modo “appropriato” alla situazione, in modo che possiate sentirvi a vostro agio, quindi, forse, eleganti. Arrivate alla festa e vi accorgete da subito che il locale in realtà non è quello che avevate creduto, ma è un semplicissimo ristorante, un po’ rustico e casereccio. Entrate e trovate tutti gli invitati, festeggiato compreso, in jeans, maglietta e sneakers. Come vi sentite? Fuori luogo, a disagio? Siete, numericamente parlando, una minoranza in quel contesto. Probabilmente, inizierete a sentire di avere gli occhi degli altri su di voi, che stanno pensando a quanto siete diversi e, per questo, ad escludervi dal gruppo principale.

Ecco, immaginate di sentirvi così ogni giorno in ogni contesto della vostra vita. Non dev’essere piacevole vero? Sicuramente molto può fare il contesto nel mitigare lo stato di disagio: se varie persone, durante la festa, verranno a complimentarsi con voi per il look dicendovi che anche a loro era venuto il dubbio sul dress code, complimentandosi per il coraggio che avete avuto a vestirvi come più vi piaceva, forse vi sentirete un po’ più a vostro agio. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui l’orientamento sessuale sarà considerato come un vestito, un colore di capelli, una semplice preferenza, un gusto personale, il giorno in cui la minoranza della comunità LGBT+ non sarà più tale e contrapposta alla maggioranza eterosessuale. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui, entrando alla festa ognuno sarà vestito assolutamente come gli pare e nessuno sentirà il bisogno di etichettare il look come elegante o sportivo, consono o inappropriato, giusto o sbagliato. D’altronde c’è anche un famosissimo detto popolare, forse illuminante se ci soffermiamo per comprenderlo a fondo: l’abito non fa il monaco! 

Conoscere il pregiudizio
per non temerlo

Conosciamo insieme il pregiudizio

Purtroppo, nella società moderna e nell’era del web, dare il proprio giudizio sembra indispensabile: si confonde la libertà di opinione e di parola con il dovere di dire cosa si pensa, anche quando non si hanno gli strumenti per avere un pensiero riguardo a una determinata tematica. Sembra quasi sconveniente stare in silenzio, non dire la propria opinione, o ancora peggio rispondere “io non lo so” quando qualcuno, direttamente o indirettamente, ci chiede un parere o un giudizio. Uno dei danni di questo meccanismo che prende vita principalmente sul web e sui social network, forse il più grande, è la disinformazione, perché? Perché la disinformazione e l’ignoranza di determinati argomenti sono la base del pregiudizio. Pregiudizio significa, infatti, letteralmente giudizio prematuro quindi una valutazione che si basa su argomenti pregressi e/o su una loro indiretta o generica conoscenza. Il pregiudizio è quello che si verifica ogni volta, quindi, che giudichiamo qualcosa senza conoscerla a fondo. Questo è il meccanismo secondo cui si crea il pregiudizio, è importante capire bene le dinamiche degli aspetti che affrontiamo nella vita quotidiana, capire il meccanismo alla base del pregiudizio è utile a non cadere a nostra volta in un pregiudizio. 

 

Pregiudizio sul pregiudizio 

Facciamo un esempio pratico: pensiamo, ad esempio, a tutte le persone che sostengono di essere contrarie alle adozioni di coppie omosessuali; se pensassimo che queste persone siano omofobe staremmo cadendo in un pregiudizio. Probabilmente è così, ma non possiamo avere la certezza che sia così nel 100% dei casi. Ritenere che questo pregiudizio possa provenire solamente da persone omofobe è a sua volta un pregiudizio, dato da una conoscenza parziale o inesatta che deriva dal non sapere come si crea il pregiudizio stesso. Infatti, chi pensa sia sbagliato che le persone omosessuali possano creare una famiglia con dei bambini, si rifà ad una conoscenza parziale ed inesatta dei bisogni di un bambino e della capacità necessarie ad assolvere compiti genitoriali, riconducendoli ad un modello di famiglia tradizionale e allo stereotipo di ruoli genitoriali abbinati al sesso di appartenenza. Dobbiamo capire questa dinamica, perché? Innanzitutto per poter rispondere efficacemente ad una persona che ha queste convinzioni e stimolare in essa una riflessione che non sia polemica, attacco e litigio, ma che sia effettivamente utile a far comprendere perché è assurdo essere contrari alle adozioni omosessuali e alle famiglie arcobaleno. In secondo luogo per poter affrontare serenamente il pregiudizio di cui, purtroppo, siamo quotidianamente vittime. Le famiglie arcobaleno e tutte le tematiche attinenti ai diritti LGBT+, infatti, non sono argomento di riflessione quotidiana per un grande numero di persone, in altre parole: moltissime persone ne sanno davvero poco. Eppure tantissimi esprimono i loro pensieri e giudizi (che in realtà sono pregiudizi).

 

Hardiness: vantaggi per tutti 

Oggi, purtroppo la nostra società è ancora piena di pregiudizi, che possono avere conseguenze anche molto importanti sulle persone. Allo stato attuale le persone LGBT+, così come qualunque minoranza sociale, si ritrovano a subire gli effetti dei pregiudizi ogni giorno. E’ possibile riuscire a conviverci? Innanzitutto è importante capirlo, capire perché esiste e come si genera; di ciò abbiamo appena parlato.  moltissimi passi avanti, a quel punto bisogna affrontare le emozioni connesse al pregiudizio. Ci sentiamo arrabbiati, offesi, delusi dalla società e dalle persone, probabilmente si ha paura del pregiudizio e delle emozioni connesse quindi di fatti questo può intaccare il nostro benessere. Come qualunque emozione negativa, non è possibile farla sparire o trasformarla magicamente in positiva, ma è possibile affrontarla, darle il giusto peso e usarla come spunto di crescita personale. Un buon modo per farlo, ad esempio, nel caso specifico potrebbe essere vedere il pregiudizio non come un ostacolo insormontabile, che ci intralcerà in moltissimi ambiti di vita, che ci esporrà a giudizi non richiesti che ci feriranno, ma vederlo come una sfida quotidiana. Questo, in psicologia, ha un nome ben preciso: hardiness. L’hardiness è la capacità di prendere lo stress negativo e non solo gestirlo, ma trasformarlo in opportunità di apprendimento quindi di fatto ricavarne qualcosa di positivo; è la capacità di vedere gli ostacoli non in accezione negativa ma in accezione positiva, come se fossero delle sfide da superare. In questo caso l’occasione di crescita, l’opportunità di cambiamento è duplice: per le “vittime” del pregiudizio saper gestire delle intense emozioni negative e per chi invece attua il pregiudizio nei nostri confronti è un’occasione di riflessione, di allargare i propri orizzonti riflettendo su qualcosa su cui non ci si era mai soffermati. 

Minority Stress

Cos’è il minority stress?

In psicologia, è stato individuato un termine per indicare il distress (ovvero stress negativo) a cui sono sottoposte le minoranze sociali, cioè gruppi di persone con delle caratteristiche differenti da quelle che prevalgono nella società in cui vivono. Le minoranze, quindi, sono tali per una questione prevalentemente numerica: le donne militari (italiane e nel mondo) sono una minoranza, le persone africane in Italia sono una minoranza, le ragazze madri (dai 18/20 anni in giù) sono una minoranza. Ogni minoranza ha, chiaramente, le sue caratteristiche ben precise, i suoi bisogni e necessità, i suoi punti di forza e debolezza. Tutte però sono accomunate da un fattore molto importante: lo stress che deriva dalla stessa appartenenza alla minoranza, dalle persistenti discriminazioni e differenze di opportunità che ne derivano. La comunità LGBT+ è considerata una minoranza quindi, in quanto tale, è sottoposta al minority stress. 

 

“La discriminazione mi stressa”

Non è facile, se non si appartiene a una minoranza sociale, immedesimarsi in questo tipo di stress peculiare che deriva dalla discriminazione esplicita o implicita. Le discriminazioni più palesi e plateali sono dirette, esplicite, forse anche mirate a ferire la persona discriminata: esempio recente tristemente noto all’opinione pubblica è il rifiuto di una donna meridionale ad affittare per un breve soggiorno il suo appartamento disponibile su una piattaforma rinomata ad una coppia di uomini in vacanza. La donna, infatti, non ha assolutamente dissimulato le ragioni del rifiuto: “non affitto ai gay”. 

Per quanto una persona possa essere psicologicamente equilibrata, avere un benessere solido e una soddisfazione generica di vita, essere sottoposti a tali discriminazioni è indubbiamente qualcosa che ferisce, fa arrabbiare, rende delusi, tristi, fa percepire un senso di impotenza. Tutti questi sentimenti negativi, anche se provati per una frazione di secondo, si sedimentano nella psiche delle persone contribuendo a creare questo stress. In certi casi, questi sentimenti negativi possono essere così intensi e ingestibili che la persona percepisce la necessità di parlarne con uno psicologo. Inoltre, le discriminazioni non sono sempre di questo tipo, esplicite e molto dirette, spesso sono più implicite e quindi subdole. Pensate ad una bambina che non viene invitata alla festa di compleanno del compagno di classe: il motivo è che i genitori non riescono a concepire come la bambina possa avere due mamme e nessun papà, nessuno lo dice ma tutti lo sanno. Questa forma di discriminazione è particolarmente subdola, passa attraverso una terza persona e si può sommare anche all’indifferenza della maggior parte delle persone che, di fronte a questa profonda ingiustizia, si girano dall’altra parte. 

 

Come gestire il minority stress: l’unione fa la forza

Le minoranze, come già detto, in quanto tali sono caratterizzate dal peculiare stress derivante dalle discriminazioni. Hanno però un’altra peculiarità, opposta o forse speculare: una forte coesione interna. I gruppi minoritari, che sia per istinto di sopravvivenza, che sia per spiccata empatia derivante dalle stesse esperienze negative (discriminatorie) sono molto coesi, si supportano e sostengono a vicenda. La comunità LGBT+ in particolar modo ha un fortissimo senso di solidarietà interna, elemento fortemente positivo per combattere le discriminazioni. Questa, però, non può certamente essere la soluzione definitiva. Per ridurre, o eliminare completamente, il minority stress, è importante prima di tutto una tutela dalle discriminazioni subite che parta primariamente dallo Stato, con l’approvazione di una Legge contro l’omobitransfobia. Infine, è necessaria una forte spinta educativa a livello sociale che porti a un cambiamento di percezione delle persone che facciano parte di una qualsiasi minoranza in ambito sessuale: da “minoritaria” a, semplicemente, differente e per questo unica.