Le persone LGBT+ nello sport

Quanto sono riconosciute le persone LGBT+ nello sport?

La European Gay Lesbian Sport Federation (EGLSF) è la prima organizzazione internazionale, con sede ad Amsterdam, che a livello europeo promuove all’interno del mondo sportivo la visibilità delle persone LBGT+. Si occupa infatti di coordinare gruppi sportivi e di organizzare eventi a livello continentale come gli Eurogames. Perché esiste un’organizzazione del genere? Il motivo è ovvio: nel mondo dello sport non c’è una presenza accettata e riconosciuta di persone LGBT+. Ciò si nota, ad esempio, dallo scalpore che suscitano i coming out di noti personaggi sportivi. Le testate giornalistiche, in ogni parte del mondo, trattano la notizia del coming out degli sportivi come una notizia sensazionale, che deve necessariamente suscitare un enorme “scandalo”, anche quando gli stessi sportivi la trattano con estrema naturalezza e semplicità. Un esempio? Paola Egonu è una bravissima pallavolista classe ’98 della nazionale italiana che, a seguito di una sconfitta nel campionato mondiale 2018 ad un giornalista che le chiedeva “Come hai affrontato la delusione della sconfitta?” ha risposto con tutta la naturalezza del caso: “Ho chiamato la mia ragazza che mi ha consolata”. Il giornale non ha mancato di gestire la notizia come se fosse una rivelazione shock. Ma per quale motivo suscita così tanto scalpore tutt’oggi, in Italia in particolar modo, che gli sportivi facciano coming out?

 

LGBT+ nel mondo del calcio: un connubio possibile?

In alcuni sport più che in altri si nota una forte resistenza nei confronti della comunità LGBT+. Prendiamo ad esempio lo sport più diffuso e seguito a livello mondiale ma specialmente italiano: il calcio. Riusciamo a pensare ad un calciatore italiano gay? Probabilmente no. È plausibile pensare che, su circa 1000 uomini calciatori agonisti nel nostro paese (calcolato facilmente con una semplice moltiplicazione di numero di squadre di serie A e B, 40 circa, per numero di giocatori a squadra, 25 circa), nessuno di questi sia gay, trans, bisessuale o asessuale? Non è facile dare una spiegazione a questo fenomeno, però il calciatore “tipo” nell’immaginario collettivo incarna lo stereotipo di uomo con le caratteristiche di virilità e forza, caratteristiche opposte allo stereotipo di omosessuale (effeminatezza e fragilità). Anche la questione dello spogliatoio citata dal calciatore non è da sottovalutare: in un ambiente di quel tipo gli uomini scherzano molto con la sessualità, denigrando di fatto la sessualità tra uomini; è comprensibile quanto una persona omosessuale possa sentirsi scoraggiata al coming out e non voglia esporsi al rischio di venire emarginata dalla sua squadra. La coesione tra i compagni di squadra, infatti, è cruciale per avere delle alte performance. Insomma, il mondo del calcio, non è difficile dirlo, è più omofobo rispetto ad altri ambiti sportivi. Anzi, specifichiamo: il mondo del calcio maschile. Nel mondo del calcio femminile, infatti, le calciatrici omosessuali non fanno scalpore, sono molte e le persone lo ritengono quasi ovvio: “se gioca a calcio ovvio che sia lesbica” (usato purtroppo spesso in senso denigratorio). Si tratta, in realtà, di uno stereotipo: così come il calciatore è “sicuramente” eterosessuale, la calciatrice è “sicuramente” lesbica. Non è certamente sempre così. Questi stereotipi confermano quanto detto appena prima: il calcio nell’immaginario comune è (purtroppo) sport da uomo, da “uomo vero”. 

 

Lo sport non è solo una questione di fisico

Uscendo dallo specifico ambito del mondo calcistico, non abbiamo di fatto trovato risposta alla domanda “Perché il coming out degli sportivi suscita, in genere, scalpore?”. Infatti, si è parlato del perché nel mondo del calcio il coming out non esista proprio, ma questo non è generalizzabile ad altri sport. Sono molti a livello mondiale gli sportivi che hanno dichiarato la propria omosessualità o il proprio transgenderismo (più a livello mondiale che a livello italiano nello specifico): pallavolo, pallamano, basket, tennis, atletica, nuoto, tuffi, ginnastica artistica, etc. 

La diversità LGBT in ambito sportivo è considerata ricchezza? Valore? Forse, non proprio. Se nel mondo lavorativo negli ultimi anni le politiche di diversity management sono sempre più orientate a valorizzare la diversità delle persone è perché ci si è resi conto che, in quell’ambito, la diversità è ricchezza. Nel lavoro, infatti, la persona che sta dietro il ruolo è cruciale per ottenere un’alta performance. Nello sport vale lo stesso? C’è in realtà l’opinione, molto diffusa, che a prescindere dallo sport a cui ci si riferisce ciò che sia importante è la prestazione fisica di per sé. Tutti gli sportivi sanno, però, che la componente mentale e psicologica è cruciale in qualunque sport, sia individuale che di squadra. Perché allora non si considera che nello sport, proprio come nel lavoro, la diversità può essere ricchezza? 

Questo potrebbe essere, infatti, sereno ed onesto con sé stesso; di conseguenza avrà la mente libera da altre preoccupazioni per potersi concentrare sulla sua performance, in altre parole potrà dare il massimo. Purtroppo, ancora oggi la diversità LGBT nello sport non solo non è valorizzata, è non considerata, come se non esistesse. È per questo motivo che nel momento in cui si presenta i giornali (e le persone di conseguenza) trattano questo elemento come qualcosa che “fa notizia”. Ci sono, però, alcune realtà milanesi che tengono particolarmente alla rappresentazione delle persone LGBT+ nello sport, come Gate Volley Milano, Rainbowling Milano e Pride Sport Milano (propone pallacanestro, yoga, ciclismo e nuoto), in cui potrete trovare riconoscimento e…divertimento!

Disforia di genere

Chiamatemi Lili

Copenaghen, anni 20 del secolo scorso. Una coppia sposata di artisti, Einar e Gerda Wegener, vede sconvolti i propri equilibri quando Einar, inizia a vestirsi da donna traendone un enorme soddisfazione e benessere psicologico. Inizialmente la moglie è sconvolta da questa “novità” del marito, rifiutandola, ma nel momento in cui si rende conto che è un bisogno, una necessità per la persona con cui condivide la vita, accompagna Einar in un difficilissimo percorso che lo porta a diventare Lili Elbe. Nel 1930 il percorso ha il suo culmine con l’intervento chirurgico con cui Einar smette di essere biologicamente uomo e tramite la rimozione dei testicoli inizia la sua definitiva transizione in donna. Considerata l’epoca storica non vi stupirà sapere che il caso attirò enormemente l’attenzione pubblica, tanto da diventare oggetto di romanzi e film fino ai giorni nostri. Vi suonava familiare questa storia, non è vero? Molto probabilmente avrete visto o sentito parlare del film “The Danish girl”, nelle sale Italiane nel 2016, che con l’interpretazione magistrale di Eddie Redmayne racconta questa vicenda realmente accaduta che possiamo a tutti gli effetti definire storica.  L’evento storico è, chiaramente, il primo intervento chirurgico di cambio sesso, la rimozione dei testicoli. Lili ebbe però “fretta” di diventare definitivamente donna e si sottopose dopo poco ad una vaginoplastica che le fu fatale. Sappiamo che le etichette non possono riassumere la complessità dell’essere umano, ma quando si ha molta confusione riguardo a degli argomenti ancora molto poco conosciuti possono essere utili a fare chiarezza…quindi: sapreste definire il problema di Einar/Lili, dargli un nome? Siamo sicuri che moltissimi definirebbero Lili un travestito (fino a prima dell’intervento), altri forse omosessuale, molti probabilmente transessuale. Chi avrebbe ragione?

 

Disforia di genere

Una persona che si sottopone a un intervento chirurgico, più varie cure e procedure ormonali, al fine di cambiare sesso è una persona transessuale. È bene specificare che non tutte le persone transessuali sentono la necessità di sottoporsi all’intervento di transizione, modificando i propri genitali, anzi! Moltissimi si identificano con il sesso opposto a quello biologico di appartenenza ma non si sottopongono mai all’intervento. Ciò dovrebbe farci riflettere molto: siamo abituati nella nostra società ad associare automaticamente ed inevitabilmente il sesso biologico con l’identità di genere. Il sesso biologico è quello che ci viene assegnato alla nascita sulla base del nostro corpo e in particolare dei nostri genitali. L’identità di genere è il sesso con cui la persona si identifica, in cui si riconosce. Nel momento in cui una persona nasce con un determinato sesso biologico (es maschio) ma si identifica con il sesso opposto (quindi femmina) si ha un disturbo psicologico ben preciso: la disforia di genere. Essendo un disturbo comporta chiaramente un disagio, disagio così intenso che porta addirittura a sottoporsi a un intervento molto doloroso e sicuramente non esente da rischi, oltre che a cure ormonali molto pesanti per il corpo, per il cambio di sesso. È il caso di Lili, la Danish Girl che trova il coraggio di esprimere liberamente chi è solo in età adulta. La disforia di genere però non “arriva” da un momento all’altro, come può arrivare una depressione: a differenza di moltissimi altri disturbi che possono manifestarsi in qualunque momento della vita, l’insorgenza è estremamente precoce, si ha quindi già da bambini. Chiaramente da piccoli non si ha ancora una consapevolezza tale da esperire un intenso disagio, requisito indispensabile per diagnosticare il disturbo, ma molto presto i bambini sono esposti ai tradizionali ruoli di genere, che abbinano determinate caratteristiche al maschile e altre al femminile. Un bambino quindi capisce molto presto cosa la società si aspetta da lui, attribuendo il ruolo di genere sulla base del sesso biologico ma senza minimamente considerare l’identità di genere. È così che una persona, anche se in età molto precoce, vive un disagio intenso dato dalla discrepanza tra richieste e aspettative della società, quello che il suo corpo gli impone e quello che sente dentro di sé, nella mente e nel cuore. 

 

L’apparenza inganna… ma a volte lo dimentichiamo

“Non giudicare un libro dalla copertina”, “l’apparenza inganna”. Quanta verità si cela a volte nei banali detti popolari. Sappiamo per esperienza personale che l’esterno non sempre corrisponde all’interno, che ciò che noi vediamo può ingannarci. Pensiamo banalmente di andare a comprare la frutta: sulla base di cosa la scegliamo? Quella “più bella”, ovvio. Per decidere quali mele comprare sicuramente ci orienteremo verso quelle più rosse, più grandi, senza ammaccature. Quante volte vi è capitato di aprire queste mele perfette fuori e trovarci il vermicello dentro? O che non sapessero proprio di nulla perché piene di pesticidi e sostanze chimiche varie? Ma d’altronde si sa…l’apparenza inganna! Come mai allora sembriamo dimenticarlo quando ci arroghiamo il diritto di giudicare una persona e il suo orientamento sessuale e soprattutto identità di genere basandoci su ciò che vediamo? Perché nel vedere un bambino in atteggiamenti “femminili” pensiamo subito che da grande sarà gay e non ci sfiora nemmeno per un attimo che la sua identità di genere possa essere diversa dal sesso biologico? Perché valutiamo solo ciò che possiamo vedere, il sesso biologico, e non ciò che non possiamo, l’identità di genere? Siamo, purtroppo, ancora enormemente influenzati dagli stereotipi sociali di genere che hanno dominato per secoli, ma che (concedeteci l’eufemismo) iniziano a puzzare di vecchio (o puzzare di mela marcia). Come vedrete però siamo in vena di porvi domande a cui non possiamo darvi ancora risposte ben precise, eccone un’altra: perché, ci stupiamo molto di più a vedere un bambino in atteggiamenti femminili e non una bambina in atteggiamenti maschili? In ogni famiglia, classe delle scuole elementari, squadra di nuoto, c’è quasi sempre la bambina che è denominata da tutti “un maschiaccio”. È comune, ma è per questo che non ci stupiamo? Assolutamente no. La nostra ipotesi è che per la società sia più accettabile che una donna aspiri a essere come un uomo piuttosto che il contrario…ah il sessismo…che brutta erbaccia difficile da estirpare! Ma questa è un’altra storia, coinvolta però indubbiamente nella disforia di genere.  

 

Lasciatemi liber* di essere chi sono

La disforia di genere è, quindi, un disturbo determinato dalla marcata incongruenza percepita tra il genere biologico assegnato alla nascita e quello soggettivamente esperito. Si ha un forte desiderio di appartenere al sesso opposto che si manifesta specie nei bambini con una insistenza nel volersi atteggiare e vestire come le persone del sesso opposto. La sofferenza esperita è notevole. Da cosa deriva questa sofferenza? Sicuramente dall’impotenza, rabbia e frustrazione che una persona può sperimentare a causa del fatto che è nata “in un corpo sbagliato”. Siamo sicuri che sia tutto qui? Vorremmo raccontarvi la storia raccontata da fanpage.it (link al video in bibliografia) di Lori, bambina che quando viveva in Italia era scritta sul registro di classe e all’anagrafe con il nome di Lorenzo. La mamma di Lori non ha mai ostacolato la vera “natura” di sua figlia, assecondando il suo bisogno e desiderio di essere una femmina. Lori e la mamma vivono adesso a Valencia, dove il clima culturale nei confronti della comunità LGBT è molto più di apertura rispetto che in Italia, quindi in classe le amichette di Lori non si sono stupite dal sapere che una volta era un maschio, grazie anche alle spiegazioni prive di stereotipi che hanno saputo dare i loro genitori. Lori è una bambina transgender, non ha subito alcun intervento di cambio sesso (d’altronde è troppo piccola, forse lo farà in futuro, forse no) ma questo non deve interessarci; ciò che davvero ci interessa è che Lori è una bambina felice. Non soffre per essere nata biologicamente maschio, si comporta come si sente, è libera di essere ciò che si sente di essere (grazie alla famiglia e alla società). Lori potrebbe rientrare nella categoria di disforia di genere? Secondo i criteri diagnostici, le mere etichette forse si; secondo il buon senso che ogni psicologo deve avere no, Lori non soffre, non ha un problema. È con l’ultima domanda quindi, che vogliamo lasciarvi a pensare: certo, le etichette a volte chiariscono ciò che non conosciamo (esempio distinzione tra sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, ruolo di genere) ma non credete che, a volte, confondono e rendono complesse situazioni più semplici di ciò che immaginiamo?

Cross dressing

Siamo certi che esistano solo due sessi?

Siete mai stati in un campo estivo? Molto spesso si svolgono delle attività ricreative per creare un senso di condivisione e comunalità tra i ragazzi e le ragazze che vi partecipano. Non è infrequente che in queste attività rientrino giochi di squadra e gare “insoliti” che divertono molto chi vi partecipa. Un esempio nella nostra esperienza, diretta e indiretta, è un gioco in cui si dividono le squadre per sesso e si imposta una “sfilata” particolare: i maschi devono sfilare vestiti da femmine mentre le femmine vestite da maschi. Chi convincerà maggiormente i giudici, cioè i responsabili del campo estivo, del proprio travestimento vincerà la gara. Indossare letteralmente i panni del sesso opposto ha un nome ben preciso: cross-dressing. Questa terminologia si basa su due presupposti indispensabili: considerare il sesso come dicotomico, maschi e femmine; considerare l’abbigliamento come distinguibile in abiti che sono prerogativa del genere maschile e altri prerogativa del genere femminile. Analizziamoli entrambi: il primo sembra assolutamente scontato alla maggior parte delle persone che ritengono ovvio che esistano due soli sessi e due soli generi di appartenenza. In tempi recenti però, grazie all’apertura mentale a ciò che appare inconsueto anche nel campo della sessualità e di tutte le sue componenti, è sempre più conosciuta e diffusa l’idea di identità di genere come un continuum, una sorta di scala che va dal polo maschile a quello femminile ma che ha in mezzo molti livelli intermedi. È infatti sempre più conosciuta la dicitura “gender fluid” per indicare quelle persone che si muovono nel continuum, assumendo un’identità prevalentemente femminile, ad esempio, in alcuni momenti della propria vita, e prevalentemente maschile in altri. Alcune persone assumono uno di quei punti intermedi del continuum in modo stabile, sentendosi nel corso della loro vita per una certa “quota” femmine e per un’altra “quota” maschi; altre ancora si collocano esattamente a metà sentendosi egualmente femmine o maschi, o nessuno dei due. Insomma le possibilità sono infinite. Ma perché stiamo parlando dell’identità di genere? Ah già, perché nella nostra cultura diamo per scontato che sia dicotomica, quando in realtà non lo è. Detto ciò chiariamo da subito un fatto cruciale: non è necessario essere in un punto intermedio di questo continuum per praticare il cross-dressing! Persone che si sentono totalmente maschi o totalmente femmine possono avere l’abitudine di indossare abiti che culturalmente appartengono al sesso opposto. 

 

Quella volta che ho indossato i tacchi di mamma

Il secondo presupposto del cross-dressing, oltre la concezione binaria di genere, è che ci sia un abbigliamento femminile e uno maschile. Questo è ovviamente un prodotto culturale. Resteremmo allibiti dal vedere arrivare in ufficio il nostro capo, uomo, con un tacco 13. Il fatto che sia un prodotto culturale è dimostrabile tramite “l’innocenza” dei bambini: spessissimo i bambini piccoli, sia maschi che femmine, ancora relativamente immuni alle convenzioni culturali, giocano con gli abiti dei genitori in modo indiscriminato: indossano la cravatta del papà insieme al bracciale di perle della mamma e i suoi tacchi. Un bambino può giocare a indossare tutti gli abiti della madre poiché ammirandola vorrebbe essere proprio come lei, non può ancora capire che sta giocando a “travestirsi”. Questo comportamento dei bambini suscita spesso l’ilarità e il divertimento dei genitori, in modo particolare quando un bambino maschio indossa i vestiti della mamma. Anche questo è uno spunto interessante di riflessione: come dicevamo saremmo increduli a veder indossare un uomo dei tacchi alti, ma non lo siamo se una donna indossa una cravatta (certo adattata a “caratteristiche femminili”) un completo, una camicia. Come mai?

 

Coco Chanel: la donna che permise alle donne di vestirsi da uomo

Il mondo della moda detta le leggi di ciò che è accettabile nel campo dell’abbigliamento e di ciò che non lo è. Oggi non ci stupiamo quando le donne indossano abiti che sono sempre stati considerati prevalentemente maschili, un esempio tipico è il completo. Per la prima volta all’inizio del ‘900 una donna che ha fatto la storia del mondo della moda ha riscritto le regole dell’abbigliamento diviso per genere: Coco Chanel ha creato il primo modello di pantaloni da donna nei ruggenti anni ’20 e poco dopo il primo tailleur da donna, negli anni ’30. Da allora l’abbigliamento “maschile” è stato sdoganato per le donne che oggi lo utilizzano frequentemente. Questa è sicuramente una conquista delle lotte femministe per la parità di genere: finalmente le donne si sentono libere di indossare indumenti più comodi, pratici, sentendosi al pari degli uomini ad esempio nel posto di lavoro. Che le donne utilizzino abiti maschili è assolutamente comune, “normale”, accettato: è anche per questo motivo che il cross-dressing suscita molto più scalpore quando sono gli uomini a praticarlo. È evidente che il motivo sia culturale per i motivi appena descritti, aggiungiamo inoltre un elemento un po’ provocatorio: la società accetta molto più facilmente che una donna aspiri a somigliare a un uomo, ad ottenere cose che lui ha sempre avuto, piuttosto che il contrario. Va bene che una donna voglia essere come un uomo, ma il contrario assolutamente no! Forse ciò potrebbe rientrare in una mentalità sessista e patriarcale che è davvero dura a morire in tutti noi.  

 

Che confusione!

Torniamo al cross-dressing: la pratica di indossare, abitualmente o occasionalmente, abiti culturalmente attribuiti al genere opposto a quello di appartenenza. È abbastanza probabile che ciascuno di noi abbia praticato cross-dressing almeno una volta nella sua vita, da piccolo in modo inconsapevole, a un campo estivo, durante le recite scolastiche. Per la categoria degli attori è ovviamente spesso inevitabile dover praticare cross-dressing, quando si deve interpretare un ruolo del sesso opposto. A proposito di intrattenimento, si ha una forma particolare di spettacolo, quella delle drag-queen e dei drag-king: persone che si travestono in modo molto vistoso ed eccessivo con abiti del sesso opposto per esibirsi in numeri musicali di canto e/o danza. È purtroppo molta diffusa una credenza erronea per cui le drag queen (parliamo principalmente di loro per questioni di diffusione) sono transessuali, ovvero vorrebbero appartenere al sesso opposto perché si travestono da donne. Questo potrebbe essere vero ma non è assolutamente inevitabile: non tutte le drag queen sono transessuali. Si ha spesso davvero molta confusione riguardo ai termini transessualismo, drag queen, cross-dressing e travestitismo. Si ha una sorta di tendenza indiscriminante a considerarli tutti come sovrapponibili a cui, purtroppo, si abbina una tendenza discriminatoria e patologizzante: per la maggior parte delle persone, uomini che praticano cross dressing quindi si vestono con abiti femminili, le drag queen che si esibiscono in abiti femminili pur essendo uomini, le persone transessuali che pur essendo uomini si percepiscono donne nella loro identità di genere e infine i così detti “travestiti” (che in realtà sono persone con un disturbo parafilico da travestitismo) sono tutti un’unica cosa; in più si ha la credenza (assolutamente erronea) che siano inevitabilmente omosessuali.

 

Occhio a non patologizzare

Si ha la tendenza a sovrapporre il crossdressing al travestitismo, alla transessualità e all’omosessualità. Andiamo per ordine. Innanzitutto escludiamo l’omosessualità che riguarda l’orientamento sessuale, da chi si è attratti sessualmente; questo non ha a che fare con l’identità di genere che percepiamo di avere. L’identità di genere è coinvolta nella transessualità che si sperimenta nel momento in cui il sesso biologico con cui si nasce non corrisponde all’identità di genere, chi ci sentiamo di essere. Restano cross-dressing e travestitismo. In effetti non è immediata da individuare la differenza: abbiamo fin ora detto che le persone che praticano cross-dressing sono persone che indossano abiti del sesso opposto quindi in effetti si travestono. Per travestitismo allora cosa si intende? In realtà è lo stesso comportamento ma in un’ottica patologica: sono persone che non riescono a fare a meno di trasvestirsi. In più la differenza cruciale riguarda il piano sessuale: le persone che praticano cross-dressing non lo praticano perché ciò gli provoca un’eccitazione sessuale, le persone con un disturbo da travestitismo invece si. Il disturbo infatti rientra i disturbi parafilici: disturbi per cui una persona riesce a ottenere eccitazione e godimento sessuale in modo vincolato a un oggetto, una parte del corpo o un’attività specifica (tra cui il travestirsi). Questa “selettività” nella possibilità di eccitarsi determina un disagio per la persona che ne soffre (qui la differenza tra disturbo parafilico e parafilia, spesso confusi: la parafilia non è patologica in quanto non comporta per la persona che la sperimenta un disagio e una sofferenza). L’ulteriore conferma del fatto che disturbo da travestitismo e cross dressing siano comportamenti molto diversi, il primo patologico, il secondo no, deriva da studi scientifici (Långström, Zucker, 2005): in un campione svedese esaminato nel 2005 il cross-dressing, praticato secondo gli autori principalmente dagli uomini, era correlato a una buona soddisfazione di vita (potremmo ipotizzare che il motivo sia che si sentono più liberi di essere come vogliono); molti cross-dresser inoltre riportavano posizioni socio-economiche abbastanza elevate; l’87% riferiva un orientamento eterosessuale difatti moltissimi erano sposati con figli. Tra queste persone svedesi che praticavano cross-dressing pochissime riportavano eccitazione sessuale nel farlo e gli autori classificano questa categoria di individui come persone con un disturbo parafilico.

Insomma, la letteratura, l’esperienza personale, la storia se vogliamo, ci dice che indossare i panni del sesso opposto non è assolutamente un comportamento patologico; se questo è assolutamente condiviso riguardo alle donne, non lo è oggi a proposito degli uomini. Avremmo bisogno di una nuova Coco Chanel che “permetta” agli uomini di vestirsi da donne. 

Come in moltissimi ambiti che coinvolgono i ruoli di genere, è la cultura a dover cambiare, ci vuole pazienza ma anche tenacia, del resto ce lo insegna anche la Disney: se Mulan non si fosse vestita da uomo, probabilmente gli Unni avrebbero invaso la Cina! 

Terapeuta gay frendly

Chi è Gay Friendly?

Con il termine gay friendly si intendono tutte quelle persone, luoghi, associazioni, che accettano e contribuiscono alla valorizzazione della comunità LGBT+, quindi che sono “amichevoli” e aperti nei confronti di questa comunità. Potremmo dire che è gay friendly chi prova simpatia per la comunità LGBT!  Sebbene la società stia facendo grandi progressi nel percorso di inclusione della comunità LGBT, è indubbio che questa sia considerata una “minoranza sociale”: il termine si riferisce semplicemente alla quantità, quindi al fatto che al suddetto gruppo non appartiene la maggioranza della popolazione in un dato momento storico. Gay friendly si riferisce, dicevamo, a persone: molte figure socialmente esposte di spettacolo o politica, come Lady Gaga o Barack Obama, si sono schierate a supporto della comunità LGBT e delle loro battaglie, la prima ha fondato l’associazione “Born this way foundation” a favore dei ragazzi e ragazze LGBT; luoghi: quartieri di molte città in cui si trovano bar, locali, librerie legati alla cultura gay tra cui Soho a Londra, Chueca a Madrid, Via San Giovanni in Laterano a Roma, etc.; associazioni: la prima citata di Lady Gaga, chiaramente Arcigay, Arcilesbica etc., ma anche moltissime aziende importanti che si sono schierate a favore delle lotte LGBT devolvendo in molti casi anche grossi finanziamenti ad alcune campagne, ad esempio Apple, American Express, Disney. È importante specificare come essere gay friendly non voglia dire soltanto “non essere omofobi” quindi non avere pregiudizi: l’inclusione e l’accoglienza vanno ben oltre, significa abbracciare una causa in modo disinteressato, senza secondi fini ed esclusivamente per la “simpatia” che si prova. Simpatia infatti in greco significa “sentire con”, essere partecipe di ciò che sente l’altro… significa capirlo, condividere la sua sofferenza o felicità.

Psicologi e psicoterapeuti Gay friendly

Purtroppo ancora oggi molti psicologi nelle loro attività professionali trascurano l’importanza delle condizioni particolari in cui cresce e si sviluppa un individuo omosessuale o con un’identità di genere fluida. Le minoranze sono sottoposte al “minority stress”: le persone omosessuali e con un’identità di genere non conforme al sesso biologico sperimentano in modo quasi inevitabile uno stress legato a pregiudizi e stereotipi a cui sono sottoposti. Questo stress può essere gestibile in modo autonomo dalla persona, o meno. Nel secondo caso l’esito più negativo è la cronicizzazione che potrebbe portare ad una sofferenza più conclamata. Ciò dipende da molti fattori tra cui: la resilienza individuale, il supporto esterno di amici e familiari, avere modelli di riferimento a cui ispirarsi, etc.
La comunità gay da questo punto di vista dovrebbe ricevere, a nostro avviso, un’attenzione particolare da parte dei professionisti del benessere mentale, in quanto spesso chi appartiene a questo gruppo sociale non riceve un supporto da amici e familiari, sentendosi isolato; in più essendo una comunità relativamente “giovane” chi vi appartiene non ha molti modelli a cui ispirarsi. Potremmo dire che, almeno per il momento, chi appartiene alla comunità LGBT trova sostegno prevalentemente nel suo in-group cioè nella comunità stessa, e meno all’esterno. Nel momento in cui una persona che appartiene a questo gruppo si rivolge a noi psicologi e psicoterapeuti crediamo che esprimere la propria “amicizia” ovvero supporto svincolato da pregiudizi e simpatia di cui si parlava prima, verso persone che vivono la loro appartenenza a questa minoranza in modo negativo, sia fondamentale. Sì, stiamo proprio dicendo che, secondo noi, tutti i terapeuti o psicologi che lavorano con persone gay, lesbiche, transgender, cisgender, etc., dovrebbero essere gay friendly!… O quantomeno avere la capacità di riconoscere di non esserlo e in questo caso inviare ad altri colleghi quei casi su cui non hanno molti strumenti per agire. 

Come capisco se il mio terapeuta è Gay Friendly?

Se appartieni alla comunità LGBT e sei entrato in terapia (o hai intenzione di farlo), forse ti sarai chiesto se il tuo terapeuta è effettivamente “quello giusto” per te. Appartenere a una minoranza pone spesso nella spiacevole condizione della diffidenza: si è ormai talmente abituati a sentirsi incompresi e discriminati che le aspettative sugli altri sono negative. Innanzitutto la prima e più banale osservazione che puoi fare se vuoi essere sicuro che il tuo terapeuta non abbia pregiudizi è riguardo alle tue sensazioni: fidati del tuo istinto! Ti senti a tuo agio? Probabilmente il terapeuta sta efficacemente esprimendo la sua “simpatia” (nel senso in cui l’abbiamo intesa prima, non nel senso comune).  Un altro aspetto che puoi attenzionare è la sensibilità o al contrario l’indifferenza nei confronti del fatto che tu effettivamente appartenga ad una minoranza: secondo noi la parola chiave tra queste due condizioni è equilibrio! Un terapeuta che è eccessivamente sensibile alle tematiche LGBT rischia di farsi coinvolgere troppo con pazienti con cui entra troppo in empatia (e non solo in simpatia), perde l’obiettività che caratterizza la nostra professione e rischia di amplificare i sentimenti del paziente esternando i propri; al contrario un terapeuta che si mostra indifferente al fatto che tu appartenga ad una minoranza non sta considerando il il minority stress di cui si parlava in precedenza. Spesso l’atteggiamento di chi in generale non vuole mostrarsi omofobo, guidato da stereotipi e pregiudizi, è quello dell’annullare e non tenere in considerazione le differenze tra chi appartiene alla comunità LGBT e chi invece no, tra omosessuali ed etero… si pensa di essere “politically correct”, ma in terapia questo può essere altamente controproducente perché si va ad escludere un pezzo molto importante dell’identità del paziente e della sua storia. In terzo luogo puoi informarti facilmente su internet accedendo al curriculum vitae del tuo terapeuta se ha una formazione specifica in tematiche LGBT: nella nostra professione tenerci costantemente aggiornati è necessario, oltre che doveroso come ci ricorda il codice deontologico (articolo 5).  Infine l’ultimo consiglio che possiamo darti riguarda il prestare attenzione alla terminologia che usa il tuo terapeuta: conoscere il significato e utilizzare termini come “coming out”, “outing” la differenza tra transgender e cisgender indica di sicuro non solo un interesse ma anche una preparazione approfondita. Nel rispetto del paziente inoltre i terapeuti gay friendly sono molto attenti a non utilizzare termini e concetti eteronormativi (di chi ritiene che l’eterosessualità sia l’unico orientamento “normale”) che, ad esempio, danno per scontato l’orientamento sessuale dell’interlocutore: se ti chiede “hai un partner?” piuttosto che “hai una ragazza?” molto probabilmente hai trovato un terapeuta gay friendly!

Quando il terapeuta non è gay friendly

Sottolineavamo poco fa l’importanza, a nostro avviso, che un terapeuta sia gay friendly se decide di seguire persone che appartengono alla comunità LGBT, questo non solo nei casi in cui il problema che portano è legato al loro orientamento sessuale o alla loro identità di genere, ma anche nei casi in cui una persona gay, lesbica, trans, etc. semplicemente venga in terapia per altri problemi, qualunque essi siano. Avere degli stereotipi è comunissimo tra tutti, anche tra i terapeuti… è anche per questo che prima di iniziare a lavorare è bene sottoporsi ad un percorso di terapia personale che evidenzi e ci aiuti a superare i nostri “limiti”. I terapeuti infatti sono persone prima che professionisti, e come tutti possono avere delle difficoltà toccando alcuni argomenti in particolare. Saperlo riconoscere è la cosa fondamentale e, nel caso in cui siano così radicati in noi da non riuscire ad accantonarli, è una responsabilità morale inviare i pazienti ad altri colleghi. Non si vuole con questo discorso “condannare” chiunque non sia gay friendly, bollandolo come “omofobo”… il messaggio che vorremmo far passare è che essendo una minoranza, come dicevamo, con bisogni specifici, necessita di professionisti con una formazione specifica e un aggiornamento costante su questo campo; anche qualora il problema portato non sia attinente a temi LGBT avere degli stereotipi può influenzare negativamente il percorso terapeutico. Come mai? Il motivo è che si andrebbe a intaccare una delle chiavi fondamentali in terapia, quella che viene definita alleanza terapeutica: il feeling che si viene a creare tra paziente e terapeuta che pone le basi per fiducia e rispetto reciproci, che portano il percorso terapeutico ad essere veramente efficace.
Il paziente e lo psicologo hanno infatti degli obiettivi comuni da raggiungere insieme, collaborando in modo produttivo e propositivo da ambi i lati. Ciò che permette di lavorare insieme al raggiungimento di questi obiettivi è proprio la fiducia l’uno nell’altro, il rispetto per i sentimenti e per ciò che si investe nel percorso terapeutico da entrambe le parti e in generale un sentimento di condivisione e di empatia. Qualunque elemento possa interferire con l’alleanza è nocivo alla terapia e va escluso: se ad esempio un terapeuta avesse dei pregiudizi nei confronti delle persone omosessuali, potrebbe automaticamente ricondurre tutti i problemi che la persona porta in terapia (es un disturbo d’ansia) all’orientamento sessuale, ad ipotetiche problematiche infantili nell’elaborazione del processo che ha portato il paziente a non essere eterosessuale (orientamento “normativo” secondo chi è guidato da pregiudizi). In aggiunta è importante sapere che, purtroppo, ancora oggi esistono terapeuti che credono nelle così dette “terapie riparative” o di conversione, tese appunto a convertire l’orientamento sessuale di una persona. Quello che noi crediamo è che l’obiettivo delle terapie sia certamente un cambiamento, ma un cambiamento del benessere della persona, non della persona stessa. Ci sentiamo di diffidare da e condanniamo qualunque tipo di terapia o intervento che abbia come proposito di cambiare nel profondo una persona, perché parte dal presupposto che ci sia qualcosa di sbagliato da correggere, qualcosa di “non normale”. Ma ci siamo mai chiesti davvero cosa sia la normalità? Il termine in statistica indica semplicemente la tendenza prevalente di una popolazione, cioè il fatto che una quota abbastanza ampia del gruppo considerato abbia una caratteristica che la minoranza non ha. Riteniamo che sia molto riduttivo oltre che fuorviante applicare questo modo di ragionare alla complessità umana: non è un caso che agli studenti di psicologia una delle prime cose che viene insegnata è che “non esiste la normalità, contrapposta alla patologia”. L’essere umano è un insieme di sfumature molto complesse, sovrapposte e intrecciate, impossibili da incasellare ed etichettare.  Quegli interventi psicologici (come la terapia riparativa) che mirano a “normalizzare” la persona, non rientrano nel nostro modo di intendere la psicologia: strumento per ampliare la conoscenza che il paziente ha di sé, delle sue capacità e delle sue risorse e aumentare tramite tutto ciò il suo benessere psicologico e la sua soddisfazione generale di vita.

Omofobia ed emozioni

Cos’è l’omofobia?

Cosa significa essere omofobo? Intuitivamente si pensa subito ad un sentimento di paura, come suggerisce “fobia” e in effetti la parola deriva del greco “phobos” che sta appunto per paura. Con “omofobia” si indica quindi un’avversione per gli omosessuali. Quando leggiamo sul quotidiano, o sentiamo al telegiornale, di episodi omofobi ciò che ci arriva è che l’unica persona a provare paura è chi ha subito l’aggressione o discriminazione omofoba. Immedesimandosi nella situazione, molti di noi possono sentirsi in empatia con chi subisce il gesto omofobo: la paura è uno dei primi sentimenti che ci coglie pensando che quello a essere deriso/picchiato/umiliato possa essere il nostro amico, nostra sorella, il nostro futuro figlio. Se non si hanno pregiudizi legati all’orientamento sessuale, quindi tendenze omofobe, non è affatto facile immedesimarsi con un omofobo e provare a capire quali siano i suoi sentimenti. Quelli che appaiono manifesti sono sicuramente sentimenti di odio, rabbia, aggressività. La paura non sembra, ad un’analisi superficiale, caratterizzare il vissuto di questi individui che credono di mostrarsi “forti” agli occhi della società umiliando e aggredendo le persone omosessuali. Ma è davvero così?

Quali emozioni sperimenta un omofobo?
La paura sarebbe una delle emozioni principali che spinge alla messa in atto di questi comportamenti violenti: in un esperimento condotto da ricercatori dell’università della Georgia rivolto a persone che manifestavano tratti di omofobia, è emerso come l’esposizione a materiale erotico visivo omosessuale esplicito in questi soggetti aumenti le emozioni di paura e rabbia. Come mai? La paura è per le specie animali così come per la nostra specie un’emozione primitiva con funzione protettiva, che scatena la messa in atto dei così detti comportamenti di “attacco fuga” nel momento in cui ci sentiamo in situazioni di pericolo. 

Ma perché mai un omofobo dovrebbe sentirsi minacciato da una persona omosessuale che sta semplicemente e liberamente esprimendo le sue preferenze sessuali? Il pericolo percepito è quello del “diverso”: nonostante oggi, specialmente nelle nuove generazioni, la libertà sessuale e di espressione in tutte le sue forme sia sempre più promossa all’interno della società, bisogna tenere in conto che l’omosessualità è stata esclusa ufficialmente dalla classificazione internazionale delle malattie mentali, venendo così depennata dall’ICD-10 (International Classification of Disease) stilato dall’organizzazione mondiale della sanità, solo nel 1990! Il 17 maggio di quell’anno è avvenuto, quindi, un evento storico ed è la data, infatti, in cui si celebra la giornata internazionale contro l’omofobia. Stiamo parlando di poco meno di 30 anni: questo significa che ogni persona che oggi ha un’età superiore ai 30 anni è nata e cresciuta in una società in cui l’omosessualità era una considerata a tutti gli effetti una malattia. Ai più giovani tra di voi che ci leggono sembrerà incredibile, vero?… (ci auguriamo sia così, ndr.). Quello che spesso sfugge a tutti noi che “abitiamo il presente” ovvero siamo assorbiti dal nostro presente e dalla nostra quotidianità, è che i cambiamenti storico-sociali-culturali hanno sempre bisogno di un ricambio generazionale per consolidarsi e cristallizzarsi: il cambiamento è una cosa meravigliosa, accade inevitabilmente, ma ha bisogno del suo tempo.  Ma torniamo a noi, abbiamo capito come il diverso sia percepito come un pericolo, e come il pericolo generi paura. Se ci mettiamo nei panni di chi ha dei pregiudizi basati sull’orientamento sessuale, però, gli omosessuali trasgredendo le norme sociali prevalenti non fanno soltanto paura ma anche rabbia per la trasgressione: non si è capaci di accettare che qualcuno possa fare “come gli pare” trasgredendo le norme prevalenti. Ma perché ci si arrabbia quando qualcun’ altro ha un tale grado di libertà da trasgredire quelle che secondo noi sono delle rigide norme sociali?

Entrare in empatia con gli omofobi: tu preferisci pomodori o carote?

Proviamo, con una metafora molto banale, a porci nella condizione di entrare in empatia con i sentimenti degli omofobi. Ipotizziamo di vivere in un universo parallelo dove la norma prevalente sia quella di mangiare, tra tutti gli ortaggi, solo ed esclusivamente i pomodori. Tutti amano i pomodori e possono liberamente esprimere la loro preferenza per questo cibo, nessuno li giudica se li mangiano in pubblico o decidono di cucinarli ogni giorno a ogni ora. In questa società “adoratrice dei pomodori” un piccolo gruppo inizia a dire che loro non apprezzano così tanto l’ortaggio preferito da tutti, preferiscono invece le carote e vorrebbero poterle mangiare in pubblico senza sentirsi “strani”, fuori luogo ed esclusi dal resto della società.
Ci stupiamo?  Sicuramente si: come puoi tu voler mangiare un ortaggio che cresce sotto terra, con tutte le schifezze che questa contiene, e non sopra la terra all’aria aperta? Ci sembra una cosa innaturale.

Ci arrabbiamo? Forse inizialmente si. Perché tu puoi avere la libertà di dire che vuoi le carote, e io che, a esempio, ho sempre amato la lattuga non ho mai potuto dirlo apertamente? Perché tu puoi trasgredire una norma sociale, qualunque questa sia, e restare “impunito”? 

Il sentimento che ci coglie oscilla tra l’invidia, la rabbia e la paura che ognuno possa iniziare a fare quello che vuole e mangiare quello che vuole dovendo per sempre abbandonare tutti i pomodori.  Ora forse è il caso di lasciare da parte gli ortaggi senza dimenticare, però, l’esempio. Tra gli omofobi, moltissimi esprimono pensieri come l’innaturalità dell’amore omosessuale, la necessità di dover dare “punizioni esemplari” a chi trasgredisce l’ordine sociale, la paura “del contagio” come il timore che se i bambini crescono in un ambiente che accetta la libertà di espressione del proprio orientamento sessuale possano crescere con l’idea di essere omosessuali a loro volta. Ma soffermiamoci a pensare all’assurdità di questa ipotesi: se nel mondo in questo momento tutti diventassero omosessuali, tu che sei l’unico eterosessuale rimasto sceglieresti quindi un partner del tuo stesso sesso? Se così fosse allora potresti scriverci.


Disgusto o eccitazione repressa?

Abbiamo appena visto come i comportamenti aggressivi degli omofobi sono principalmente causati dalla paura che la trasgressione delle norme sociali possa in qualche modo compromettere l’ordine creato: gli omofobi si sentono minacciati e per questo attaccano.  Spesso abbiamo sentito dire da persone omofobe frasi come: “mi fanno schifo i gay, è una cosa innaturale, mi provoca disgusto”. Ma che ruolo ha davvero il disgustoSe lo sono chiesto molti ricercatori tra cui un gruppo che, partendo dai risultati di altri esperimenti precedenti, ha fatto una scoperta sorprendente: uomini omofobi sottoposti a stimoli sessuali omo-erotici presentavano addirittura eccitazioneIl gruppo di Adams, quindi, già alla fine del XX secolo ha ipotizzato che il disgusto provato dagli omofobi sia in realtà finalizzato a mascherare un’eccitazione latente, un’emozione repressa forse perché fa paura e di cui a volte non sono neanche consapevoliMa davvero gli omofobi potrebbero essere “omosessuali latenti” del tutto inconsapevoli della loro preferenza sessuale? È possibile non essere a conoscenza di una cosa così importante di sé stessi?  Molti studi psicologici dicono in effetti di sì. Ci piace pensare di avere la piena coscienza e controllo di noi stessi, siamo convinti che la specie umana sia “superiore” a tutte le altre poiché dotata di libero arbitrio. Sicuramente le capacità umane di controllo di sé sono superiori a quelle di qualunque altra specie, ma ciò che sta sotto la consapevolezza è molto più di quello che si possa comunemente pensare. Secondo alcuni studiosi la nostra mente è come un iceberg in cui la punta è il consapevole e tutto l’ammasso di ghiaccio sotto la superficie dell’acqua è l’inconsapevole.  Noi preferiamo non essere così “drastici”, ma ci sono sicuramente evidenze secondo cui non siamo sempre perfettamente consapevoli di noi stessi, delle nostre preferenze e delle nostre decisioni. Uno studio che utilizza il test di associazione implicita IAT mostra come alcuni giudici americani che esprimono apertamente e con molta convinzione il loro non essere razzisti, in realtà nei loro verdetti siano inconsapevolmente influenzati dalla razza dell’imputato emettendo sentenze sfavorevoli per gli afroamericani. Questo significa che sono dei razzisti ma non vogliono ammetterlo? No, in realtà in questi casi si è davvero convinti di ciò che emerge alla consapevolezza, sarebbe più corretto dire che hanno delle tendenze razziste, ma non lo sanno. Questo breve inciso è utile a dimostrare con evidenze scientifiche come possiamo effettivamente non sapere delle cose importanti su di noi. Ma torniamo al disgusto degli omofobi. Alcuni ricercatori della Georgia hanno provato a indagare meglio questo aspetto misurandolo con un esperimento. I risultati dicono che nel gruppo omofobo a seguito della visione di materiale erotico omosessuale, a differenza della paura e della rabbia, l’indice di disgusto è presente in misura minore. Questo non è sufficiente per confermare l’ipotesi di Adams e colleghi per cui gli omofobi sarebbero in realtà attratti sessualmente da uomini dello stesso sesso ma ciò che emerge è che gli omofobi non sono disgustati dagli omosessuali. Ma allora come mai la maggioranza se non totalità delle persone omofobe riferisce di provare disgusto? 


Cercare il razionale nell’irrazionale

La nostra ipotesi è che gli omofobi cerchino un modo razionale e immediato per spiegare a sé stessi e agli altri come mai provano un senso di repulsione e odio verso gli omosessuali. Una delle spiegazioni facili che riescono a darsi è appunto che ne sono disgustati. Anche il disgusto, infatti, come la paura ha una funzione protettiva per la specie ma a differenza di questa nella società moderna il disgusto è un’emozione largamente accettata: una cosa non mi piace, mi fa schifo e quindi ne sto alla larga; nessuno mi biasimerà per i miei “gusti”. La paura, invece, è ancora oggi specialmente per i maschi un’emozione socialmente più difficile da accettare: gli stereotipi di genere sono in realtà ancora molto forti nella società. Tanti sono i maschi che crescono sentendosi dire che provare paura non è accettabile perché rende deboli, fragili e addirittura “meno uomini”. La paura, inoltre, forse più delle altre emozioni non è spiegabile razionalmente: è un’emozione primitiva, difficile da controllare e tollerare perché ingenera quel senso di perdita del controllo che ci fa sentire vulnerabili ed esposti. 


Intelligenza emotiva come risorsa per abbattere le discriminazioni 

Il cambiamento di cui si parlava in precedenza è sicuramente già in atto, sono molti i paesi in cui è possibile per coppie dello stesso sesso adottare un figlio o concepire una vita tramite procedure di procreazione medica assistita, e moltissimi sono i paesi in cui sono legali le unioni civili, tra questi rientra anche l’Italia dal 20 Maggio 2016, grazie alla legge Cirinnà. Il traguardo ideale del processo di cambiamento sarebbe raggiungere un livello di “educazione sociale” improntata sull’uguaglianza e sull’equità, in questo modo sarebbe più facile riconoscere e accettare tutta la gamma di emozioni umane e di conseguenza sarebbe possibile gestirle meglio. Alla base di gesti di odio e violenza si trovano sempre le emozioni. Il modo migliore per scongiurarli, a nostro avviso, non è però educare alla tolleranza, perché tollerare è molto diverso da accettare e includere: educare alla tolleranza implica pur sempre una diversità di fondo e una logica “noi” “loro”. Una valida alternativa potrebbe essere promuovere la capacità di conoscere, comprendere e gestire le emozioni proprie e altrui. L’obiettivo ultimo dovrebbe essere quello di aumentare il benessere dei ragazzi, non solo quelli omosessuali che subiscono atti discriminatori, ma anche degli omofobi. Gli omofobi sono persone che non sanno gestire la loro vita psichica e si ritrovano in balia delle loro emozioni.  Se un’educazione ci deve essere invece dovrebbe essere, fin da piccoli,  a quella che in psicologia si chiama “intelligenza emotiva”. 

Cosa significa subire outing?

Cos’è l’outing?

L’outing, spesso confuso con il coming out, indica l’azione del rivelare l’orientamento sessuale di un’altra persona senza il suo consenso. La differenza tra i due, molto rilevante, sta quindi nella volontarietà: il coming out è volontario, l’outing no, viene subìto. Le persone outed, che subiscono l’outing, probabilmente non si sentono pronte a dichiarare la propria omosessualità e risentono quindi negativamente dell’outing. Nei casi peggiori la persona che fa outing lo fa con consapevolezza, sa di rivelare quello che per le persone in questione è “un segreto” e lo fa quindi con l’intento di nuocere. È una pratica, purtroppo, utilizzata in modo strumentale ad esempio in politica per indebolire gli avversari e far perdere una parte dell’elettorato. Anche in ambienti competitivi come alcuni ambiti lavorativi o in ambiti sportivi agonistici l’outing può essere usato da persone senza scrupoli con l’intento di nuocere all’altro. Spesso accade anche in età adolescenziale, nel contesto ad esempio del bullismo. Altrettanto spesso, però, chi fa outing non è cosciente di ciò che sta facendo, non valuta nel momento presente le conseguenze della sua azione e non si rende di fatto conto della rilevanza del proprio gesto. Questo può accadere, ad esempio, nel caso in cui una persona faccia coming out con un amico, senza specificare che è uno dei pochi “che sa”; quest’ultimo quindi, involontariamente, potrebbe fare outing con altre persone, potremmo dire “in buona fede”. In questo secondo caso i sentimenti negativi vengono provati non solo da chi “subisce” l’outing ma anche da chi lo commette, in quanto quest’ultimo può percepire di aver tradito la fiducia della persona che glielo ha confidato. 

 

Le emozioni dopo l’outing

Ma quali sono questi sentimenti negativi di cui tanto si parla?  Cosa prova una persona outed? Sicuramente si sentirà esposta, vulnerabile. Si sente come chiunque di noi si sentirebbe se qualcuno rivelasse ad altri un nostro segreto: sentirebbe tradita la sua fiducia, probabilmente proverebbe vergogna, avrebbe paura, ansia per il futuro e per le conseguenze di questo gesto, paura che la propria vita possa essere “sconvolta”.  La persona che fa outing invece involontariamente e non con l’intento di nuocere, potrebbe d’altro canto sentirsi estremamente in imbarazzo, provare anch’essa vergogna per aver “tradito” un amico e un forte senso di colpa. Entrambe le parti quindi si vengono a trovare in una situazione spiacevole e difficile da gestire. Il risentimento può essere un sentimento complesso e duraturo, spesso non riusciamo a perdonare chi ci ha fatto un danno, anche se involontariamente. Il perdono dipende, forse, tra molti aspetti in particolare dall’entità del danno: quanto più vivremo la rivelazione del nostro orientamento sessuale come un problema, tanto più non riusciremo a perdonare chi ci ha fatto fare outing, seppure non avesse cattive intenzioni. 

 

Paura dell’outing?

Il punto chiave della questione sta proprio qui: vivere l’outing come un problema è forse inevitabile, assolutamente comprensibile. Viverlo come un enorme problema, che ci blocca anche ad esempio dalla possibilità di fare coming out proprio a causa della paura che a questo consegua l’outing (da parte di persone che possono dare poco peso alla nostra “confidenza”), può andare contro noi stessi. Come qualunque cosa che non dipende dal nostro controllo, l’outing può essere difficile da gestire, da accettare e da superare, in qualsiasi circostanza si verifichi; la vita però non è pieno controllo, se ci limitiamo sulla base delle cose che non possiamo controllare cadiamo in una trappola paradossale in cui la volontà eccessiva di controllo ce lo fa, di fatto, perdere del tutto.  Avere paura del coming out a causa dell’eventualità dell’outing potrebbe non farci sentire padroni delle nostre scelte, affidarci ai “se” e ai “forse” e non al presente, ai nostri desideri e bisogni. L’outing può essere un problema, per alcuni difficile da accettare, ma come ogni problema va affrontato solo nel momento in cui effettivamente si presenta (e fidatevi, potreste stupirvi dalle risorse che riuscireste a trovare in voi stessi per affrontare problemi come questo che possono apparire insormontabili!).

Coming out VS Outing

Coming out vs Outing: tutta questione di filosofia

La volontà è ciò che, secondo molti antichi filosofi, caratterizza l’essere umano. “Cogito ergo sum” (Cartesio): penso quindi sono; sono capace di pensare a ciò che voglio ed è per questo che esito. Eppure, molti altri filosofi ci dicono che la volontà non governa la nostra vita, accadono moltissimi fatti che esulano da ciò che desideriamo e che non possiamo fare altro che accettare, stoicamente. È proprio dallo stoicismo che deriva la massima “Non devi cercare che le cose vadano a modo tuo, ma volere che vadano così come vanno, e ciò sarà bene” (Epitteto). Perché parliamo di filosofia? Perché la differenza tra la volontà e lo stoicismo che permette l’accettazione dell’ineluttabile è ciò che distingue il coming out dall’outing. In che senso? Il coming out è l’azione volontaria e attiva di dichiarare il proprio orientamento sessuale, è la volontà; l’outing è il subire la rivelazione del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere da altre persone in modo indipendente dalla nostra volontà. Perché accomunare l’outing allo stoicismo, all’accettazione dell’ineluttabile, alla serenità nell’accettare che qualcosa non può essere controllato?

 

Coming out e outing…quali le conseguenze?

Il coming out può avvenire a seguito di un percorso di accettazione che ha tempistiche e modalità del tutto individuali. Può essere una scelta molto combattuta che però spesso riesce a sollevare chi la compie. Può, ma le cose non vanno sempre così. Moltissime persone infatti vivono il coming out con totale naturalezza e semplicità, trattando la propria omosessualità come una propria caratteristica come qualsiasi altra: “Mamma sarò un medico…Papà voglio studiare un semestre all’estero… Famiglia, vorrei presentarvi il mio primo ragazzo!”. Il coming out, quindi, comporta un percorso che può essere più o meno sofferto, che dipende anche da come si pensa che le persone care lo accoglieranno. Per quanto riguarda l’outing, al contrario, è molto più probabile che la persona che lo subisce abbia delle conseguenze psicologiche complesse. Non è difficile immaginare il motivo, tutti noi sappiamo bene che le cose che subiamo e su cui non abbiamo potere ci fanno soffrire: ci sentiamo impotenti, sentiamo un sentimento di ingiustizia, forse proviamo rabbia. Facile dire “accetta le cose così come vengono, non cercare di controllare ciò che non puoi” ma ritrovarsi davanti al fatto compiuto è tutt’altra storia, la nostra mentalità moderna è del tutto lontana da questo tipo di pensiero filosofico. È proprio questo il motivo per cui spesso si soffre a seguito dell’outing e in generale si soffre quando le cose sfuggono al nostro controllo, quando qualcuno tradisce la nostra fiducia. Inoltre, è importante evidenziare che le persone che subiscono outing spesso non sono ancora “out” e quindi non hanno ancora fatto coming out con le persone care o in ambiente lavorativo. Ciò comporta che, spesso, non hanno ancora accettato del tutto la propria diversità in ambito sessuale: sentire svelato questo aspetto di sé ancora così doloroso può fare davvero molto male.

 

Come possono intrecciarsi coming out e outing?

Ciò che forse è più interessante della volontà di controllo è che quando questa blocca altre nostre volontà, porta a frenare le nostre azioni e i nostri desideri. Per esempio: quando la paura dell’outing, cioè che ci accada qualcosa che sfugge al nostro controllo, ci impedisce di fare coming out, di fatto la paura che ci venga a mancare il controllo ci fa perdere il controllo su noi stessi. Non è raro, infatti, che una persona sia effettivamente motivata a fare coming out, abbia il desiderio di farlo, ma la paura che da questo possa derivare l’outing la bloccaSi instaura un circolo vizioso per cui la paura dell’incontrollabile ci toglie il controllo sulle nostre libere scelte, sulle nostre decisioni, esponendoci di fatto a quello stesso incontrollabile di cui avevamo inizialmente paura. Secondo Seneca le persone: “Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per timore del giorno”; questi principi filosofici lontani da noi millenni sono tutt’oggi molto calzanti per spiegare le dinamiche della mente umana. Non a caso, una delle terapie psicologiche più diffuse per il trattamento dell’ansia, un disturbo spesso connesso a outing e coming out, è la CBT cioè una tipologia di psicoterapia cognitivo comportamentale utilizzata nel nostro centro psicologico, che trova le sue origini proprio in queste teorizzazioni.

Cosa significa far parte
di una minoranza?

LGBT+… cosa significa?

Ormai nella società odierna è abbastanza conosciuta la sigla LBGT (abbastanza ma non del tutto, di sicuro non ancora come desidereremmo!) che sta per Lesbian, Bisexual, Gay, Transgender.  È, però, davvero molto poco conosciuta la sigla estesa: LGBTQIA+ ovvero quella a cui si aggiungono Queer, Intersexual, Asexual; il + indica tutti gli orientamenti sessuali e identità di genere fluide non contenute in queste categorizzazioni. L’acronimo tenta di dare un’idea di quella che è la comunità LGBT+, estremamente eterogenea. Il fatto che sia qualcosa di poco conosciuto può voler dire solo una cosa: non se ne parla abbastanza. In effetti, il ventunesimo secolo, è il primo momento storico in cui si inizia a parlare apertamente e con curiosità di tematiche come l’omosessualità, l’identità di genere non binaria, la transessualità, la disforia di genere, etc. Forse sorprenderà alcuni di voi sapere che solo nel 1990 (parliamo soltanto di 30 anni fa!) l’omosessualità è stata ufficialmente disconosciuta come malattia.

Perché non se ne parla ancora a sufficienza e di conseguenza non si conoscono le varie sfumature del “mondo” a colori (il mondo LGBT fa della bandiera arcobaleno il suo simbolo evidenziando appunto l’infinita gamma di aspetti che lo caratterizzano)? Probabilmente perché la maggior parte delle persone che vive oggi si è trovata, almeno per una certa parte della propria vita, in un’epoca storica in cui appunto omosessuali significava essere malati, avere un problema da dover risolvere. Le nuove generazioni non sono ancora abbastanza da permettere quel ricambio generazionale che “ripulisca il campo” totalmente dagli stereotipi e dai preconcetti errati. Fortunatamente, il cambiamento è in atto, dobbiamo solo avere un po’ di pazienza. 

Cosa possiamo fare nel frattempo? Parlarne, parlarne e parlarne ancora! Fare domande, indagare sui propri dubbi, avere un atteggiamento curioso non giudicante e privo da preconcetti che permetta di conoscere tematiche e aspetti a noi nuovi. Per fare ciò è importante partire “dalle basi”: il bisogno di conoscere e capire inizia spesso con il bisogno di “inquadrare” le persone, dare una definizione.

 

Etichette, etichette everywhere! 

Quando iniziamo a rapportarci con una nuova persona, il nostro cervello cerca automaticamente e senza che ce ne accorgiamo, di incasellarla in una o più delle categorie già presenti nel nostro cervello. Il nostro cervello discrimina? No, semplicemente fa “economia cognitiva”, ricorrendo a ciò che già conosce per capire il prima possibile di più su una persona nuova.  La tendenza a “etichettare” è un comportamento automatico, lo facciamo su qualunque cosa, è in realtà una strategia adattiva che permette di “risparmiare” tempo e risorse cognitive. In effetti, a pensarci bene, possiamo fare un esempio: per una donna omosessuale alla ricerca (consapevole o inconsapevole) di una partner è “utile” individuare donne eterosessuali il prima possibile, così da non “perdere tempo” a tentare un approccio che si rivelerebbe inconcludente. 

L’etichettamento riguardo all’orientamento sessuale però viene fatto da tutti in modo indiscriminato, a prescindere che si abbia un potenziale interesse sessuale o sentimentale nelle persone che etichettiamo. Perché lo facciamo? Molto semplice, perché siamo abituati a farlo. È un gesto tanto automatico quanto cercare l’interruttore per accendere la luce entrando in una stanza buia. La valenza è però la stessa dell’accendere la luce? Forse non proprio, forse anzi la valenza è opposta: spesso incasellare una persona in una etichetta non ci rende la situazione più chiara e “illuminata” ma paradossalmente ci oscura la vista.

 

“Voglio essere così: sicuro di me, libero, pride!”

Dicevamo che uno dei motivi per cui oggi non si conosce abbastanza la comunità LGBT+ è perché non se ne parla abbastanza. Aggiungiamo inoltre che quando lo si fa è per fatti negativi, per evidenziare episodi di discriminazione e violenze rivolte alle persone omosessuali, transgender, queer, etc. Le discriminazioni sono chiaramente un fatto tanto grave quanto purtroppo frequente, e per questo è necessario parlarne e condannare fermamente certi comportamenti. Sarebbe però altrettanto importante parlare di esempi positivi, di inclusione e non solo accettazione, ma valorizzazione della diversità. Abbiamo bisogno di esempi a cui poterci ispirare, modelli su cui poter pensare “voglio essere così così sicura/o, così libera/o, così Fiera/o!”; non a caso il Pride indica la fierezza, l’orgoglio di essere liberi di mostrarsi per quello che si è! 

Pensiamo che finché si parlerà di una comunità LGBT+, quindi di una minoranza, si starà marcando una diversità (noi-loro): l’ideale, forse utopistico, è che un giorno non dovremo più parlare di “comunità”, che questa differenza, soltanto numerica, non sia vista come diversità (in accezione negativa) ma come una semplice caratteristica individuale, una differenza come può esserlo il colore dei capelli. 

 

Sentirsi nell’abito “sbagliato”

Dicevamo come la comunità LGBT è, allo stato attuale, una minoranza. Cosa significa far parte di una minoranza? Proviamo a rifletterci partendo da un esempio molto banale: siete invitati a una festa in un luogo che credete sia un locale molto alla moda, elegante; come vi vestirete? Presumibilmente in modo “appropriato” alla situazione, in modo che possiate sentirvi a vostro agio, quindi, forse, eleganti. Arrivate alla festa e vi accorgete da subito che il locale in realtà non è quello che avevate creduto, ma è un semplicissimo ristorante, un po’ rustico e casereccio. Entrate e trovate tutti gli invitati, festeggiato compreso, in jeans, maglietta e sneakers. Come vi sentite? Fuori luogo, a disagio? Siete, numericamente parlando, una minoranza in quel contesto. Probabilmente, inizierete a sentire di avere gli occhi degli altri su di voi, che stanno pensando a quanto siete diversi e, per questo, ad escludervi dal gruppo principale.

Ecco, immaginate di sentirvi così ogni giorno in ogni contesto della vostra vita. Non dev’essere piacevole vero? Sicuramente molto può fare il contesto nel mitigare lo stato di disagio: se varie persone, durante la festa, verranno a complimentarsi con voi per il look dicendovi che anche a loro era venuto il dubbio sul dress code, complimentandosi per il coraggio che avete avuto a vestirvi come più vi piaceva, forse vi sentirete un po’ più a vostro agio. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui l’orientamento sessuale sarà considerato come un vestito, un colore di capelli, una semplice preferenza, un gusto personale, il giorno in cui la minoranza della comunità LGBT+ non sarà più tale e contrapposta alla maggioranza eterosessuale. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui, entrando alla festa ognuno sarà vestito assolutamente come gli pare e nessuno sentirà il bisogno di etichettare il look come elegante o sportivo, consono o inappropriato, giusto o sbagliato. D’altronde c’è anche un famosissimo detto popolare, forse illuminante se ci soffermiamo per comprenderlo a fondo: l’abito non fa il monaco! 

Conoscere il pregiudizio
per non temerlo

Conosciamo insieme il pregiudizio

Purtroppo, nella società moderna e nell’era del web, dare il proprio giudizio sembra indispensabile: si confonde la libertà di opinione e di parola con il dovere di dire cosa si pensa, anche quando non si hanno gli strumenti per avere un pensiero riguardo a una determinata tematica. Sembra quasi sconveniente stare in silenzio, non dire la propria opinione, o ancora peggio rispondere “io non lo so” quando qualcuno, direttamente o indirettamente, ci chiede un parere o un giudizio. Uno dei danni di questo meccanismo che prende vita principalmente sul web e sui social network, forse il più grande, è la disinformazione, perché? Perché la disinformazione e l’ignoranza di determinati argomenti sono la base del pregiudizio. Pregiudizio significa, infatti, letteralmente giudizio prematuro quindi una valutazione che si basa su argomenti pregressi e/o su una loro indiretta o generica conoscenza. Il pregiudizio è quello che si verifica ogni volta, quindi, che giudichiamo qualcosa senza conoscerla a fondo. Questo è il meccanismo secondo cui si crea il pregiudizio, è importante capire bene le dinamiche degli aspetti che affrontiamo nella vita quotidiana, capire il meccanismo alla base del pregiudizio è utile a non cadere a nostra volta in un pregiudizio. 

 

Pregiudizio sul pregiudizio 

Facciamo un esempio pratico: pensiamo, ad esempio, a tutte le persone che sostengono di essere contrarie alle adozioni di coppie omosessuali; se pensassimo che queste persone siano omofobe staremmo cadendo in un pregiudizio. Probabilmente è così, ma non possiamo avere la certezza che sia così nel 100% dei casi. Ritenere che questo pregiudizio possa provenire solamente da persone omofobe è a sua volta un pregiudizio, dato da una conoscenza parziale o inesatta che deriva dal non sapere come si crea il pregiudizio stesso. Infatti, chi pensa sia sbagliato che le persone omosessuali possano creare una famiglia con dei bambini, si rifà ad una conoscenza parziale ed inesatta dei bisogni di un bambino e della capacità necessarie ad assolvere compiti genitoriali, riconducendoli ad un modello di famiglia tradizionale e allo stereotipo di ruoli genitoriali abbinati al sesso di appartenenza. Dobbiamo capire questa dinamica, perché? Innanzitutto per poter rispondere efficacemente ad una persona che ha queste convinzioni e stimolare in essa una riflessione che non sia polemica, attacco e litigio, ma che sia effettivamente utile a far comprendere perché è assurdo essere contrari alle adozioni omosessuali e alle famiglie arcobaleno. In secondo luogo per poter affrontare serenamente il pregiudizio di cui, purtroppo, siamo quotidianamente vittime. Le famiglie arcobaleno e tutte le tematiche attinenti ai diritti LGBT+, infatti, non sono argomento di riflessione quotidiana per un grande numero di persone, in altre parole: moltissime persone ne sanno davvero poco. Eppure tantissimi esprimono i loro pensieri e giudizi (che in realtà sono pregiudizi).

 

Hardiness: vantaggi per tutti 

Oggi, purtroppo la nostra società è ancora piena di pregiudizi, che possono avere conseguenze anche molto importanti sulle persone. Allo stato attuale le persone LGBT+, così come qualunque minoranza sociale, si ritrovano a subire gli effetti dei pregiudizi ogni giorno. E’ possibile riuscire a conviverci? Innanzitutto è importante capirlo, capire perché esiste e come si genera; di ciò abbiamo appena parlato.  moltissimi passi avanti, a quel punto bisogna affrontare le emozioni connesse al pregiudizio. Ci sentiamo arrabbiati, offesi, delusi dalla società e dalle persone, probabilmente si ha paura del pregiudizio e delle emozioni connesse quindi di fatti questo può intaccare il nostro benessere. Come qualunque emozione negativa, non è possibile farla sparire o trasformarla magicamente in positiva, ma è possibile affrontarla, darle il giusto peso e usarla come spunto di crescita personale. Un buon modo per farlo, ad esempio, nel caso specifico potrebbe essere vedere il pregiudizio non come un ostacolo insormontabile, che ci intralcerà in moltissimi ambiti di vita, che ci esporrà a giudizi non richiesti che ci feriranno, ma vederlo come una sfida quotidiana. Questo, in psicologia, ha un nome ben preciso: hardiness. L’hardiness è la capacità di prendere lo stress negativo e non solo gestirlo, ma trasformarlo in opportunità di apprendimento quindi di fatto ricavarne qualcosa di positivo; è la capacità di vedere gli ostacoli non in accezione negativa ma in accezione positiva, come se fossero delle sfide da superare. In questo caso l’occasione di crescita, l’opportunità di cambiamento è duplice: per le “vittime” del pregiudizio saper gestire delle intense emozioni negative e per chi invece attua il pregiudizio nei nostri confronti è un’occasione di riflessione, di allargare i propri orizzonti riflettendo su qualcosa su cui non ci si era mai soffermati. 

Minority Stress

Cos’è il minority stress?

In psicologia, è stato individuato un termine per indicare il distress (ovvero stress negativo) a cui sono sottoposte le minoranze sociali, cioè gruppi di persone con delle caratteristiche differenti da quelle che prevalgono nella società in cui vivono. Le minoranze, quindi, sono tali per una questione prevalentemente numerica: le donne militari (italiane e nel mondo) sono una minoranza, le persone africane in Italia sono una minoranza, le ragazze madri (dai 18/20 anni in giù) sono una minoranza. Ogni minoranza ha, chiaramente, le sue caratteristiche ben precise, i suoi bisogni e necessità, i suoi punti di forza e debolezza. Tutte però sono accomunate da un fattore molto importante: lo stress che deriva dalla stessa appartenenza alla minoranza, dalle persistenti discriminazioni e differenze di opportunità che ne derivano. La comunità LGBT+ è considerata una minoranza quindi, in quanto tale, è sottoposta al minority stress. 

 

“La discriminazione mi stressa”

Non è facile, se non si appartiene a una minoranza sociale, immedesimarsi in questo tipo di stress peculiare che deriva dalla discriminazione esplicita o implicita. Le discriminazioni più palesi e plateali sono dirette, esplicite, forse anche mirate a ferire la persona discriminata: esempio recente tristemente noto all’opinione pubblica è il rifiuto di una donna meridionale ad affittare per un breve soggiorno il suo appartamento disponibile su una piattaforma rinomata ad una coppia di uomini in vacanza. La donna, infatti, non ha assolutamente dissimulato le ragioni del rifiuto: “non affitto ai gay”. 

Per quanto una persona possa essere psicologicamente equilibrata, avere un benessere solido e una soddisfazione generica di vita, essere sottoposti a tali discriminazioni è indubbiamente qualcosa che ferisce, fa arrabbiare, rende delusi, tristi, fa percepire un senso di impotenza. Tutti questi sentimenti negativi, anche se provati per una frazione di secondo, si sedimentano nella psiche delle persone contribuendo a creare questo stress. In certi casi, questi sentimenti negativi possono essere così intensi e ingestibili che la persona percepisce la necessità di parlarne con uno psicologo. Inoltre, le discriminazioni non sono sempre di questo tipo, esplicite e molto dirette, spesso sono più implicite e quindi subdole. Pensate ad una bambina che non viene invitata alla festa di compleanno del compagno di classe: il motivo è che i genitori non riescono a concepire come la bambina possa avere due mamme e nessun papà, nessuno lo dice ma tutti lo sanno. Questa forma di discriminazione è particolarmente subdola, passa attraverso una terza persona e si può sommare anche all’indifferenza della maggior parte delle persone che, di fronte a questa profonda ingiustizia, si girano dall’altra parte. 

 

Come gestire il minority stress: l’unione fa la forza

Le minoranze, come già detto, in quanto tali sono caratterizzate dal peculiare stress derivante dalle discriminazioni. Hanno però un’altra peculiarità, opposta o forse speculare: una forte coesione interna. I gruppi minoritari, che sia per istinto di sopravvivenza, che sia per spiccata empatia derivante dalle stesse esperienze negative (discriminatorie) sono molto coesi, si supportano e sostengono a vicenda. La comunità LGBT+ in particolar modo ha un fortissimo senso di solidarietà interna, elemento fortemente positivo per combattere le discriminazioni. Questa, però, non può certamente essere la soluzione definitiva. Per ridurre, o eliminare completamente, il minority stress, è importante prima di tutto una tutela dalle discriminazioni subite che parta primariamente dallo Stato, con l’approvazione di una Legge contro l’omobitransfobia. Infine, è necessaria una forte spinta educativa a livello sociale che porti a un cambiamento di percezione delle persone che facciano parte di una qualsiasi minoranza in ambito sessuale: da “minoritaria” a, semplicemente, differente e per questo unica.