Omofobia ed emozioni

Cos’è l’omofobia?

Cosa significa essere omofobo? Intuitivamente si pensa subito ad un sentimento di paura, come suggerisce “fobia” e in effetti la parola deriva del greco “phobos” che sta appunto per paura. Con “omofobia” si indica quindi un’avversione per gli omosessuali. Quando leggiamo sul quotidiano, o sentiamo al telegiornale, di episodi omofobi ciò che ci arriva è che l’unica persona a provare paura è chi ha subito l’aggressione o discriminazione omofoba. Immedesimandosi nella situazione, molti di noi possono sentirsi in empatia con chi subisce il gesto omofobo: la paura è uno dei primi sentimenti che ci coglie pensando che quello a essere deriso/picchiato/umiliato possa essere il nostro amico, nostra sorella, il nostro futuro figlio. Se non si hanno pregiudizi legati all’orientamento sessuale, quindi tendenze omofobe, non è affatto facile immedesimarsi con un omofobo e provare a capire quali siano i suoi sentimenti. Quelli che appaiono manifesti sono sicuramente sentimenti di odio, rabbia, aggressività. La paura non sembra, ad un’analisi superficiale, caratterizzare il vissuto di questi individui che credono di mostrarsi “forti” agli occhi della società umiliando e aggredendo le persone omosessuali. Ma è davvero così?

Quali emozioni sperimenta un omofobo?
La paura sarebbe una delle emozioni principali che spinge alla messa in atto di questi comportamenti violenti: in un esperimento condotto da ricercatori dell’università della Georgia rivolto a persone che manifestavano tratti di omofobia, è emerso come l’esposizione a materiale erotico visivo omosessuale esplicito in questi soggetti aumenti le emozioni di paura e rabbia. Come mai? La paura è per le specie animali così come per la nostra specie un’emozione primitiva con funzione protettiva, che scatena la messa in atto dei così detti comportamenti di “attacco fuga” nel momento in cui ci sentiamo in situazioni di pericolo. 

Ma perché mai un omofobo dovrebbe sentirsi minacciato da una persona omosessuale che sta semplicemente e liberamente esprimendo le sue preferenze sessuali? Il pericolo percepito è quello del “diverso”: nonostante oggi, specialmente nelle nuove generazioni, la libertà sessuale e di espressione in tutte le sue forme sia sempre più promossa all’interno della società, bisogna tenere in conto che l’omosessualità è stata esclusa ufficialmente dalla classificazione internazionale delle malattie mentali, venendo così depennata dall’ICD-10 (International Classification of Disease) stilato dall’organizzazione mondiale della sanità, solo nel 1990! Il 17 maggio di quell’anno è avvenuto, quindi, un evento storico ed è la data, infatti, in cui si celebra la giornata internazionale contro l’omofobia. Stiamo parlando di poco meno di 30 anni: questo significa che ogni persona che oggi ha un’età superiore ai 30 anni è nata e cresciuta in una società in cui l’omosessualità era una considerata a tutti gli effetti una malattia. Ai più giovani tra di voi che ci leggono sembrerà incredibile, vero?… (ci auguriamo sia così, ndr.). Quello che spesso sfugge a tutti noi che “abitiamo il presente” ovvero siamo assorbiti dal nostro presente e dalla nostra quotidianità, è che i cambiamenti storico-sociali-culturali hanno sempre bisogno di un ricambio generazionale per consolidarsi e cristallizzarsi: il cambiamento è una cosa meravigliosa, accade inevitabilmente, ma ha bisogno del suo tempo.  Ma torniamo a noi, abbiamo capito come il diverso sia percepito come un pericolo, e come il pericolo generi paura. Se ci mettiamo nei panni di chi ha dei pregiudizi basati sull’orientamento sessuale, però, gli omosessuali trasgredendo le norme sociali prevalenti non fanno soltanto paura ma anche rabbia per la trasgressione: non si è capaci di accettare che qualcuno possa fare “come gli pare” trasgredendo le norme prevalenti. Ma perché ci si arrabbia quando qualcun’ altro ha un tale grado di libertà da trasgredire quelle che secondo noi sono delle rigide norme sociali?

Entrare in empatia con gli omofobi: tu preferisci pomodori o carote?

Proviamo, con una metafora molto banale, a porci nella condizione di entrare in empatia con i sentimenti degli omofobi. Ipotizziamo di vivere in un universo parallelo dove la norma prevalente sia quella di mangiare, tra tutti gli ortaggi, solo ed esclusivamente i pomodori. Tutti amano i pomodori e possono liberamente esprimere la loro preferenza per questo cibo, nessuno li giudica se li mangiano in pubblico o decidono di cucinarli ogni giorno a ogni ora. In questa società “adoratrice dei pomodori” un piccolo gruppo inizia a dire che loro non apprezzano così tanto l’ortaggio preferito da tutti, preferiscono invece le carote e vorrebbero poterle mangiare in pubblico senza sentirsi “strani”, fuori luogo ed esclusi dal resto della società.
Ci stupiamo?  Sicuramente si: come puoi tu voler mangiare un ortaggio che cresce sotto terra, con tutte le schifezze che questa contiene, e non sopra la terra all’aria aperta? Ci sembra una cosa innaturale.

Ci arrabbiamo? Forse inizialmente si. Perché tu puoi avere la libertà di dire che vuoi le carote, e io che, a esempio, ho sempre amato la lattuga non ho mai potuto dirlo apertamente? Perché tu puoi trasgredire una norma sociale, qualunque questa sia, e restare “impunito”? 

Il sentimento che ci coglie oscilla tra l’invidia, la rabbia e la paura che ognuno possa iniziare a fare quello che vuole e mangiare quello che vuole dovendo per sempre abbandonare tutti i pomodori.  Ora forse è il caso di lasciare da parte gli ortaggi senza dimenticare, però, l’esempio. Tra gli omofobi, moltissimi esprimono pensieri come l’innaturalità dell’amore omosessuale, la necessità di dover dare “punizioni esemplari” a chi trasgredisce l’ordine sociale, la paura “del contagio” come il timore che se i bambini crescono in un ambiente che accetta la libertà di espressione del proprio orientamento sessuale possano crescere con l’idea di essere omosessuali a loro volta. Ma soffermiamoci a pensare all’assurdità di questa ipotesi: se nel mondo in questo momento tutti diventassero omosessuali, tu che sei l’unico eterosessuale rimasto sceglieresti quindi un partner del tuo stesso sesso? Se così fosse allora potresti scriverci.


Disgusto o eccitazione repressa?

Abbiamo appena visto come i comportamenti aggressivi degli omofobi sono principalmente causati dalla paura che la trasgressione delle norme sociali possa in qualche modo compromettere l’ordine creato: gli omofobi si sentono minacciati e per questo attaccano.  Spesso abbiamo sentito dire da persone omofobe frasi come: “mi fanno schifo i gay, è una cosa innaturale, mi provoca disgusto”. Ma che ruolo ha davvero il disgustoSe lo sono chiesto molti ricercatori tra cui un gruppo che, partendo dai risultati di altri esperimenti precedenti, ha fatto una scoperta sorprendente: uomini omofobi sottoposti a stimoli sessuali omo-erotici presentavano addirittura eccitazioneIl gruppo di Adams, quindi, già alla fine del XX secolo ha ipotizzato che il disgusto provato dagli omofobi sia in realtà finalizzato a mascherare un’eccitazione latente, un’emozione repressa forse perché fa paura e di cui a volte non sono neanche consapevoliMa davvero gli omofobi potrebbero essere “omosessuali latenti” del tutto inconsapevoli della loro preferenza sessuale? È possibile non essere a conoscenza di una cosa così importante di sé stessi?  Molti studi psicologici dicono in effetti di sì. Ci piace pensare di avere la piena coscienza e controllo di noi stessi, siamo convinti che la specie umana sia “superiore” a tutte le altre poiché dotata di libero arbitrio. Sicuramente le capacità umane di controllo di sé sono superiori a quelle di qualunque altra specie, ma ciò che sta sotto la consapevolezza è molto più di quello che si possa comunemente pensare. Secondo alcuni studiosi la nostra mente è come un iceberg in cui la punta è il consapevole e tutto l’ammasso di ghiaccio sotto la superficie dell’acqua è l’inconsapevole.  Noi preferiamo non essere così “drastici”, ma ci sono sicuramente evidenze secondo cui non siamo sempre perfettamente consapevoli di noi stessi, delle nostre preferenze e delle nostre decisioni. Uno studio che utilizza il test di associazione implicita IAT mostra come alcuni giudici americani che esprimono apertamente e con molta convinzione il loro non essere razzisti, in realtà nei loro verdetti siano inconsapevolmente influenzati dalla razza dell’imputato emettendo sentenze sfavorevoli per gli afroamericani. Questo significa che sono dei razzisti ma non vogliono ammetterlo? No, in realtà in questi casi si è davvero convinti di ciò che emerge alla consapevolezza, sarebbe più corretto dire che hanno delle tendenze razziste, ma non lo sanno. Questo breve inciso è utile a dimostrare con evidenze scientifiche come possiamo effettivamente non sapere delle cose importanti su di noi. Ma torniamo al disgusto degli omofobi. Alcuni ricercatori della Georgia hanno provato a indagare meglio questo aspetto misurandolo con un esperimento. I risultati dicono che nel gruppo omofobo a seguito della visione di materiale erotico omosessuale, a differenza della paura e della rabbia, l’indice di disgusto è presente in misura minore. Questo non è sufficiente per confermare l’ipotesi di Adams e colleghi per cui gli omofobi sarebbero in realtà attratti sessualmente da uomini dello stesso sesso ma ciò che emerge è che gli omofobi non sono disgustati dagli omosessuali. Ma allora come mai la maggioranza se non totalità delle persone omofobe riferisce di provare disgusto? 


Cercare il razionale nell’irrazionale

La nostra ipotesi è che gli omofobi cerchino un modo razionale e immediato per spiegare a sé stessi e agli altri come mai provano un senso di repulsione e odio verso gli omosessuali. Una delle spiegazioni facili che riescono a darsi è appunto che ne sono disgustati. Anche il disgusto, infatti, come la paura ha una funzione protettiva per la specie ma a differenza di questa nella società moderna il disgusto è un’emozione largamente accettata: una cosa non mi piace, mi fa schifo e quindi ne sto alla larga; nessuno mi biasimerà per i miei “gusti”. La paura, invece, è ancora oggi specialmente per i maschi un’emozione socialmente più difficile da accettare: gli stereotipi di genere sono in realtà ancora molto forti nella società. Tanti sono i maschi che crescono sentendosi dire che provare paura non è accettabile perché rende deboli, fragili e addirittura “meno uomini”. La paura, inoltre, forse più delle altre emozioni non è spiegabile razionalmente: è un’emozione primitiva, difficile da controllare e tollerare perché ingenera quel senso di perdita del controllo che ci fa sentire vulnerabili ed esposti. 


Intelligenza emotiva come risorsa per abbattere le discriminazioni 

Il cambiamento di cui si parlava in precedenza è sicuramente già in atto, sono molti i paesi in cui è possibile per coppie dello stesso sesso adottare un figlio o concepire una vita tramite procedure di procreazione medica assistita, e moltissimi sono i paesi in cui sono legali le unioni civili, tra questi rientra anche l’Italia dal 20 Maggio 2016, grazie alla legge Cirinnà. Il traguardo ideale del processo di cambiamento sarebbe raggiungere un livello di “educazione sociale” improntata sull’uguaglianza e sull’equità, in questo modo sarebbe più facile riconoscere e accettare tutta la gamma di emozioni umane e di conseguenza sarebbe possibile gestirle meglio. Alla base di gesti di odio e violenza si trovano sempre le emozioni. Il modo migliore per scongiurarli, a nostro avviso, non è però educare alla tolleranza, perché tollerare è molto diverso da accettare e includere: educare alla tolleranza implica pur sempre una diversità di fondo e una logica “noi” “loro”. Una valida alternativa potrebbe essere promuovere la capacità di conoscere, comprendere e gestire le emozioni proprie e altrui. L’obiettivo ultimo dovrebbe essere quello di aumentare il benessere dei ragazzi, non solo quelli omosessuali che subiscono atti discriminatori, ma anche degli omofobi. Gli omofobi sono persone che non sanno gestire la loro vita psichica e si ritrovano in balia delle loro emozioni.  Se un’educazione ci deve essere invece dovrebbe essere, fin da piccoli,  a quella che in psicologia si chiama “intelligenza emotiva”. 

Cosa significa subire outing?

Cos’è l’outing?

L’outing, spesso confuso con il coming out, indica l’azione del rivelare l’orientamento sessuale di un’altra persona senza il suo consenso. La differenza tra i due, molto rilevante, sta quindi nella volontarietà: il coming out è volontario, l’outing no, viene subìto. Le persone outed, che subiscono l’outing, probabilmente non si sentono pronte a dichiarare la propria omosessualità e risentono quindi negativamente dell’outing. Nei casi peggiori la persona che fa outing lo fa con consapevolezza, sa di rivelare quello che per le persone in questione è “un segreto” e lo fa quindi con l’intento di nuocere. È una pratica, purtroppo, utilizzata in modo strumentale ad esempio in politica per indebolire gli avversari e far perdere una parte dell’elettorato. Anche in ambienti competitivi come alcuni ambiti lavorativi o in ambiti sportivi agonistici l’outing può essere usato da persone senza scrupoli con l’intento di nuocere all’altro. Spesso accade anche in età adolescenziale, nel contesto ad esempio del bullismo. Altrettanto spesso, però, chi fa outing non è cosciente di ciò che sta facendo, non valuta nel momento presente le conseguenze della sua azione e non si rende di fatto conto della rilevanza del proprio gesto. Questo può accadere, ad esempio, nel caso in cui una persona faccia coming out con un amico, senza specificare che è uno dei pochi “che sa”; quest’ultimo quindi, involontariamente, potrebbe fare outing con altre persone, potremmo dire “in buona fede”. In questo secondo caso i sentimenti negativi vengono provati non solo da chi “subisce” l’outing ma anche da chi lo commette, in quanto quest’ultimo può percepire di aver tradito la fiducia della persona che glielo ha confidato. 

 

Le emozioni dopo l’outing

Ma quali sono questi sentimenti negativi di cui tanto si parla?  Cosa prova una persona outed? Sicuramente si sentirà esposta, vulnerabile. Si sente come chiunque di noi si sentirebbe se qualcuno rivelasse ad altri un nostro segreto: sentirebbe tradita la sua fiducia, probabilmente proverebbe vergogna, avrebbe paura, ansia per il futuro e per le conseguenze di questo gesto, paura che la propria vita possa essere “sconvolta”.  La persona che fa outing invece involontariamente e non con l’intento di nuocere, potrebbe d’altro canto sentirsi estremamente in imbarazzo, provare anch’essa vergogna per aver “tradito” un amico e un forte senso di colpa. Entrambe le parti quindi si vengono a trovare in una situazione spiacevole e difficile da gestire. Il risentimento può essere un sentimento complesso e duraturo, spesso non riusciamo a perdonare chi ci ha fatto un danno, anche se involontariamente. Il perdono dipende, forse, tra molti aspetti in particolare dall’entità del danno: quanto più vivremo la rivelazione del nostro orientamento sessuale come un problema, tanto più non riusciremo a perdonare chi ci ha fatto fare outing, seppure non avesse cattive intenzioni. 

 

Paura dell’outing?

Il punto chiave della questione sta proprio qui: vivere l’outing come un problema è forse inevitabile, assolutamente comprensibile. Viverlo come un enorme problema, che ci blocca anche ad esempio dalla possibilità di fare coming out proprio a causa della paura che a questo consegua l’outing (da parte di persone che possono dare poco peso alla nostra “confidenza”), può andare contro noi stessi. Come qualunque cosa che non dipende dal nostro controllo, l’outing può essere difficile da gestire, da accettare e da superare, in qualsiasi circostanza si verifichi; la vita però non è pieno controllo, se ci limitiamo sulla base delle cose che non possiamo controllare cadiamo in una trappola paradossale in cui la volontà eccessiva di controllo ce lo fa, di fatto, perdere del tutto.  Avere paura del coming out a causa dell’eventualità dell’outing potrebbe non farci sentire padroni delle nostre scelte, affidarci ai “se” e ai “forse” e non al presente, ai nostri desideri e bisogni. L’outing può essere un problema, per alcuni difficile da accettare, ma come ogni problema va affrontato solo nel momento in cui effettivamente si presenta (e fidatevi, potreste stupirvi dalle risorse che riuscireste a trovare in voi stessi per affrontare problemi come questo che possono apparire insormontabili!).

Coming out VS Outing

Coming out vs Outing: tutta questione di filosofia

La volontà è ciò che, secondo molti antichi filosofi, caratterizza l’essere umano. “Cogito ergo sum” (Cartesio): penso quindi sono; sono capace di pensare a ciò che voglio ed è per questo che esito. Eppure, molti altri filosofi ci dicono che la volontà non governa la nostra vita, accadono moltissimi fatti che esulano da ciò che desideriamo e che non possiamo fare altro che accettare, stoicamente. È proprio dallo stoicismo che deriva la massima “Non devi cercare che le cose vadano a modo tuo, ma volere che vadano così come vanno, e ciò sarà bene” (Epitteto). Perché parliamo di filosofia? Perché la differenza tra la volontà e lo stoicismo che permette l’accettazione dell’ineluttabile è ciò che distingue il coming out dall’outing. In che senso? Il coming out è l’azione volontaria e attiva di dichiarare il proprio orientamento sessuale, è la volontà; l’outing è il subire la rivelazione del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere da altre persone in modo indipendente dalla nostra volontà. Perché accomunare l’outing allo stoicismo, all’accettazione dell’ineluttabile, alla serenità nell’accettare che qualcosa non può essere controllato?

 

Coming out e outing…quali le conseguenze?

Il coming out può avvenire a seguito di un percorso di accettazione che ha tempistiche e modalità del tutto individuali. Può essere una scelta molto combattuta che però spesso riesce a sollevare chi la compie. Può, ma le cose non vanno sempre così. Moltissime persone infatti vivono il coming out con totale naturalezza e semplicità, trattando la propria omosessualità come una propria caratteristica come qualsiasi altra: “Mamma sarò un medico…Papà voglio studiare un semestre all’estero… Famiglia, vorrei presentarvi il mio primo ragazzo!”. Il coming out, quindi, comporta un percorso che può essere più o meno sofferto, che dipende anche da come si pensa che le persone care lo accoglieranno. Per quanto riguarda l’outing, al contrario, è molto più probabile che la persona che lo subisce abbia delle conseguenze psicologiche complesse. Non è difficile immaginare il motivo, tutti noi sappiamo bene che le cose che subiamo e su cui non abbiamo potere ci fanno soffrire: ci sentiamo impotenti, sentiamo un sentimento di ingiustizia, forse proviamo rabbia. Facile dire “accetta le cose così come vengono, non cercare di controllare ciò che non puoi” ma ritrovarsi davanti al fatto compiuto è tutt’altra storia, la nostra mentalità moderna è del tutto lontana da questo tipo di pensiero filosofico. È proprio questo il motivo per cui spesso si soffre a seguito dell’outing e in generale si soffre quando le cose sfuggono al nostro controllo, quando qualcuno tradisce la nostra fiducia. Inoltre, è importante evidenziare che le persone che subiscono outing spesso non sono ancora “out” e quindi non hanno ancora fatto coming out con le persone care o in ambiente lavorativo. Ciò comporta che, spesso, non hanno ancora accettato del tutto la propria diversità in ambito sessuale: sentire svelato questo aspetto di sé ancora così doloroso può fare davvero molto male.

 

Come possono intrecciarsi coming out e outing?

Ciò che forse è più interessante della volontà di controllo è che quando questa blocca altre nostre volontà, porta a frenare le nostre azioni e i nostri desideri. Per esempio: quando la paura dell’outing, cioè che ci accada qualcosa che sfugge al nostro controllo, ci impedisce di fare coming out, di fatto la paura che ci venga a mancare il controllo ci fa perdere il controllo su noi stessi. Non è raro, infatti, che una persona sia effettivamente motivata a fare coming out, abbia il desiderio di farlo, ma la paura che da questo possa derivare l’outing la bloccaSi instaura un circolo vizioso per cui la paura dell’incontrollabile ci toglie il controllo sulle nostre libere scelte, sulle nostre decisioni, esponendoci di fatto a quello stesso incontrollabile di cui avevamo inizialmente paura. Secondo Seneca le persone: “Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per timore del giorno”; questi principi filosofici lontani da noi millenni sono tutt’oggi molto calzanti per spiegare le dinamiche della mente umana. Non a caso, una delle terapie psicologiche più diffuse per il trattamento dell’ansia, un disturbo spesso connesso a outing e coming out, è la CBT cioè una tipologia di psicoterapia cognitivo comportamentale utilizzata nel nostro centro psicologico, che trova le sue origini proprio in queste teorizzazioni.

Cosa significa far parte
di una minoranza?

LGBT+… cosa significa?

Ormai nella società odierna è abbastanza conosciuta la sigla LBGT (abbastanza ma non del tutto, di sicuro non ancora come desidereremmo!) che sta per Lesbian, Bisexual, Gay, Transgender.  È, però, davvero molto poco conosciuta la sigla estesa: LGBTQIA+ ovvero quella a cui si aggiungono Queer, Intersexual, Asexual; il + indica tutti gli orientamenti sessuali e identità di genere fluide non contenute in queste categorizzazioni. L’acronimo tenta di dare un’idea di quella che è la comunità LGBT+, estremamente eterogenea. Il fatto che sia qualcosa di poco conosciuto può voler dire solo una cosa: non se ne parla abbastanza. In effetti, il ventunesimo secolo, è il primo momento storico in cui si inizia a parlare apertamente e con curiosità di tematiche come l’omosessualità, l’identità di genere non binaria, la transessualità, la disforia di genere, etc. Forse sorprenderà alcuni di voi sapere che solo nel 1990 (parliamo soltanto di 30 anni fa!) l’omosessualità è stata ufficialmente disconosciuta come malattia.

Perché non se ne parla ancora a sufficienza e di conseguenza non si conoscono le varie sfumature del “mondo” a colori (il mondo LGBT fa della bandiera arcobaleno il suo simbolo evidenziando appunto l’infinita gamma di aspetti che lo caratterizzano)? Probabilmente perché la maggior parte delle persone che vive oggi si è trovata, almeno per una certa parte della propria vita, in un’epoca storica in cui appunto omosessuali significava essere malati, avere un problema da dover risolvere. Le nuove generazioni non sono ancora abbastanza da permettere quel ricambio generazionale che “ripulisca il campo” totalmente dagli stereotipi e dai preconcetti errati. Fortunatamente, il cambiamento è in atto, dobbiamo solo avere un po’ di pazienza. 

Cosa possiamo fare nel frattempo? Parlarne, parlarne e parlarne ancora! Fare domande, indagare sui propri dubbi, avere un atteggiamento curioso non giudicante e privo da preconcetti che permetta di conoscere tematiche e aspetti a noi nuovi. Per fare ciò è importante partire “dalle basi”: il bisogno di conoscere e capire inizia spesso con il bisogno di “inquadrare” le persone, dare una definizione.

 

Etichette, etichette everywhere! 

Quando iniziamo a rapportarci con una nuova persona, il nostro cervello cerca automaticamente e senza che ce ne accorgiamo, di incasellarla in una o più delle categorie già presenti nel nostro cervello. Il nostro cervello discrimina? No, semplicemente fa “economia cognitiva”, ricorrendo a ciò che già conosce per capire il prima possibile di più su una persona nuova.  La tendenza a “etichettare” è un comportamento automatico, lo facciamo su qualunque cosa, è in realtà una strategia adattiva che permette di “risparmiare” tempo e risorse cognitive. In effetti, a pensarci bene, possiamo fare un esempio: per una donna omosessuale alla ricerca (consapevole o inconsapevole) di una partner è “utile” individuare donne eterosessuali il prima possibile, così da non “perdere tempo” a tentare un approccio che si rivelerebbe inconcludente. 

L’etichettamento riguardo all’orientamento sessuale però viene fatto da tutti in modo indiscriminato, a prescindere che si abbia un potenziale interesse sessuale o sentimentale nelle persone che etichettiamo. Perché lo facciamo? Molto semplice, perché siamo abituati a farlo. È un gesto tanto automatico quanto cercare l’interruttore per accendere la luce entrando in una stanza buia. La valenza è però la stessa dell’accendere la luce? Forse non proprio, forse anzi la valenza è opposta: spesso incasellare una persona in una etichetta non ci rende la situazione più chiara e “illuminata” ma paradossalmente ci oscura la vista.

 

“Voglio essere così: sicuro di me, libero, pride!”

Dicevamo che uno dei motivi per cui oggi non si conosce abbastanza la comunità LGBT+ è perché non se ne parla abbastanza. Aggiungiamo inoltre che quando lo si fa è per fatti negativi, per evidenziare episodi di discriminazione e violenze rivolte alle persone omosessuali, transgender, queer, etc. Le discriminazioni sono chiaramente un fatto tanto grave quanto purtroppo frequente, e per questo è necessario parlarne e condannare fermamente certi comportamenti. Sarebbe però altrettanto importante parlare di esempi positivi, di inclusione e non solo accettazione, ma valorizzazione della diversità. Abbiamo bisogno di esempi a cui poterci ispirare, modelli su cui poter pensare “voglio essere così così sicura/o, così libera/o, così Fiera/o!”; non a caso il Pride indica la fierezza, l’orgoglio di essere liberi di mostrarsi per quello che si è! 

Pensiamo che finché si parlerà di una comunità LGBT+, quindi di una minoranza, si starà marcando una diversità (noi-loro): l’ideale, forse utopistico, è che un giorno non dovremo più parlare di “comunità”, che questa differenza, soltanto numerica, non sia vista come diversità (in accezione negativa) ma come una semplice caratteristica individuale, una differenza come può esserlo il colore dei capelli. 

 

Sentirsi nell’abito “sbagliato”

Dicevamo come la comunità LGBT è, allo stato attuale, una minoranza. Cosa significa far parte di una minoranza? Proviamo a rifletterci partendo da un esempio molto banale: siete invitati a una festa in un luogo che credete sia un locale molto alla moda, elegante; come vi vestirete? Presumibilmente in modo “appropriato” alla situazione, in modo che possiate sentirvi a vostro agio, quindi, forse, eleganti. Arrivate alla festa e vi accorgete da subito che il locale in realtà non è quello che avevate creduto, ma è un semplicissimo ristorante, un po’ rustico e casereccio. Entrate e trovate tutti gli invitati, festeggiato compreso, in jeans, maglietta e sneakers. Come vi sentite? Fuori luogo, a disagio? Siete, numericamente parlando, una minoranza in quel contesto. Probabilmente, inizierete a sentire di avere gli occhi degli altri su di voi, che stanno pensando a quanto siete diversi e, per questo, ad escludervi dal gruppo principale.

Ecco, immaginate di sentirvi così ogni giorno in ogni contesto della vostra vita. Non dev’essere piacevole vero? Sicuramente molto può fare il contesto nel mitigare lo stato di disagio: se varie persone, durante la festa, verranno a complimentarsi con voi per il look dicendovi che anche a loro era venuto il dubbio sul dress code, complimentandosi per il coraggio che avete avuto a vestirvi come più vi piaceva, forse vi sentirete un po’ più a vostro agio. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui l’orientamento sessuale sarà considerato come un vestito, un colore di capelli, una semplice preferenza, un gusto personale, il giorno in cui la minoranza della comunità LGBT+ non sarà più tale e contrapposta alla maggioranza eterosessuale. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui, entrando alla festa ognuno sarà vestito assolutamente come gli pare e nessuno sentirà il bisogno di etichettare il look come elegante o sportivo, consono o inappropriato, giusto o sbagliato. D’altronde c’è anche un famosissimo detto popolare, forse illuminante se ci soffermiamo per comprenderlo a fondo: l’abito non fa il monaco! 

Conoscere il pregiudizio
per non temerlo

Conosciamo insieme il pregiudizio

Purtroppo, nella società moderna e nell’era del web, dare il proprio giudizio sembra indispensabile: si confonde la libertà di opinione e di parola con il dovere di dire cosa si pensa, anche quando non si hanno gli strumenti per avere un pensiero riguardo a una determinata tematica. Sembra quasi sconveniente stare in silenzio, non dire la propria opinione, o ancora peggio rispondere “io non lo so” quando qualcuno, direttamente o indirettamente, ci chiede un parere o un giudizio. Uno dei danni di questo meccanismo che prende vita principalmente sul web e sui social network, forse il più grande, è la disinformazione, perché? Perché la disinformazione e l’ignoranza di determinati argomenti sono la base del pregiudizio. Pregiudizio significa, infatti, letteralmente giudizio prematuro quindi una valutazione che si basa su argomenti pregressi e/o su una loro indiretta o generica conoscenza. Il pregiudizio è quello che si verifica ogni volta, quindi, che giudichiamo qualcosa senza conoscerla a fondo. Questo è il meccanismo secondo cui si crea il pregiudizio, è importante capire bene le dinamiche degli aspetti che affrontiamo nella vita quotidiana, capire il meccanismo alla base del pregiudizio è utile a non cadere a nostra volta in un pregiudizio. 

 

Pregiudizio sul pregiudizio 

Facciamo un esempio pratico: pensiamo, ad esempio, a tutte le persone che sostengono di essere contrarie alle adozioni di coppie omosessuali; se pensassimo che queste persone siano omofobe staremmo cadendo in un pregiudizio. Probabilmente è così, ma non possiamo avere la certezza che sia così nel 100% dei casi. Ritenere che questo pregiudizio possa provenire solamente da persone omofobe è a sua volta un pregiudizio, dato da una conoscenza parziale o inesatta che deriva dal non sapere come si crea il pregiudizio stesso. Infatti, chi pensa sia sbagliato che le persone omosessuali possano creare una famiglia con dei bambini, si rifà ad una conoscenza parziale ed inesatta dei bisogni di un bambino e della capacità necessarie ad assolvere compiti genitoriali, riconducendoli ad un modello di famiglia tradizionale e allo stereotipo di ruoli genitoriali abbinati al sesso di appartenenza. Dobbiamo capire questa dinamica, perché? Innanzitutto per poter rispondere efficacemente ad una persona che ha queste convinzioni e stimolare in essa una riflessione che non sia polemica, attacco e litigio, ma che sia effettivamente utile a far comprendere perché è assurdo essere contrari alle adozioni omosessuali e alle famiglie arcobaleno. In secondo luogo per poter affrontare serenamente il pregiudizio di cui, purtroppo, siamo quotidianamente vittime. Le famiglie arcobaleno e tutte le tematiche attinenti ai diritti LGBT+, infatti, non sono argomento di riflessione quotidiana per un grande numero di persone, in altre parole: moltissime persone ne sanno davvero poco. Eppure tantissimi esprimono i loro pensieri e giudizi (che in realtà sono pregiudizi).

 

Hardiness: vantaggi per tutti 

Oggi, purtroppo la nostra società è ancora piena di pregiudizi, che possono avere conseguenze anche molto importanti sulle persone. Allo stato attuale le persone LGBT+, così come qualunque minoranza sociale, si ritrovano a subire gli effetti dei pregiudizi ogni giorno. E’ possibile riuscire a conviverci? Innanzitutto è importante capirlo, capire perché esiste e come si genera; di ciò abbiamo appena parlato.  moltissimi passi avanti, a quel punto bisogna affrontare le emozioni connesse al pregiudizio. Ci sentiamo arrabbiati, offesi, delusi dalla società e dalle persone, probabilmente si ha paura del pregiudizio e delle emozioni connesse quindi di fatti questo può intaccare il nostro benessere. Come qualunque emozione negativa, non è possibile farla sparire o trasformarla magicamente in positiva, ma è possibile affrontarla, darle il giusto peso e usarla come spunto di crescita personale. Un buon modo per farlo, ad esempio, nel caso specifico potrebbe essere vedere il pregiudizio non come un ostacolo insormontabile, che ci intralcerà in moltissimi ambiti di vita, che ci esporrà a giudizi non richiesti che ci feriranno, ma vederlo come una sfida quotidiana. Questo, in psicologia, ha un nome ben preciso: hardiness. L’hardiness è la capacità di prendere lo stress negativo e non solo gestirlo, ma trasformarlo in opportunità di apprendimento quindi di fatto ricavarne qualcosa di positivo; è la capacità di vedere gli ostacoli non in accezione negativa ma in accezione positiva, come se fossero delle sfide da superare. In questo caso l’occasione di crescita, l’opportunità di cambiamento è duplice: per le “vittime” del pregiudizio saper gestire delle intense emozioni negative e per chi invece attua il pregiudizio nei nostri confronti è un’occasione di riflessione, di allargare i propri orizzonti riflettendo su qualcosa su cui non ci si era mai soffermati. 

Minority Stress

Cos’è il minority stress?

In psicologia, è stato individuato un termine per indicare il distress (ovvero stress negativo) a cui sono sottoposte le minoranze sociali, cioè gruppi di persone con delle caratteristiche differenti da quelle che prevalgono nella società in cui vivono. Le minoranze, quindi, sono tali per una questione prevalentemente numerica: le donne militari (italiane e nel mondo) sono una minoranza, le persone africane in Italia sono una minoranza, le ragazze madri (dai 18/20 anni in giù) sono una minoranza. Ogni minoranza ha, chiaramente, le sue caratteristiche ben precise, i suoi bisogni e necessità, i suoi punti di forza e debolezza. Tutte però sono accomunate da un fattore molto importante: lo stress che deriva dalla stessa appartenenza alla minoranza, dalle persistenti discriminazioni e differenze di opportunità che ne derivano. La comunità LGBT+ è considerata una minoranza quindi, in quanto tale, è sottoposta al minority stress. 

 

“La discriminazione mi stressa”

Non è facile, se non si appartiene a una minoranza sociale, immedesimarsi in questo tipo di stress peculiare che deriva dalla discriminazione esplicita o implicita. Le discriminazioni più palesi e plateali sono dirette, esplicite, forse anche mirate a ferire la persona discriminata: esempio recente tristemente noto all’opinione pubblica è il rifiuto di una donna meridionale ad affittare per un breve soggiorno il suo appartamento disponibile su una piattaforma rinomata ad una coppia di uomini in vacanza. La donna, infatti, non ha assolutamente dissimulato le ragioni del rifiuto: “non affitto ai gay”. 

Per quanto una persona possa essere psicologicamente equilibrata, avere un benessere solido e una soddisfazione generica di vita, essere sottoposti a tali discriminazioni è indubbiamente qualcosa che ferisce, fa arrabbiare, rende delusi, tristi, fa percepire un senso di impotenza. Tutti questi sentimenti negativi, anche se provati per una frazione di secondo, si sedimentano nella psiche delle persone contribuendo a creare questo stress. In certi casi, questi sentimenti negativi possono essere così intensi e ingestibili che la persona percepisce la necessità di parlarne con uno psicologo. Inoltre, le discriminazioni non sono sempre di questo tipo, esplicite e molto dirette, spesso sono più implicite e quindi subdole. Pensate ad una bambina che non viene invitata alla festa di compleanno del compagno di classe: il motivo è che i genitori non riescono a concepire come la bambina possa avere due mamme e nessun papà, nessuno lo dice ma tutti lo sanno. Questa forma di discriminazione è particolarmente subdola, passa attraverso una terza persona e si può sommare anche all’indifferenza della maggior parte delle persone che, di fronte a questa profonda ingiustizia, si girano dall’altra parte. 

 

Come gestire il minority stress: l’unione fa la forza

Le minoranze, come già detto, in quanto tali sono caratterizzate dal peculiare stress derivante dalle discriminazioni. Hanno però un’altra peculiarità, opposta o forse speculare: una forte coesione interna. I gruppi minoritari, che sia per istinto di sopravvivenza, che sia per spiccata empatia derivante dalle stesse esperienze negative (discriminatorie) sono molto coesi, si supportano e sostengono a vicenda. La comunità LGBT+ in particolar modo ha un fortissimo senso di solidarietà interna, elemento fortemente positivo per combattere le discriminazioni. Questa, però, non può certamente essere la soluzione definitiva. Per ridurre, o eliminare completamente, il minority stress, è importante prima di tutto una tutela dalle discriminazioni subite che parta primariamente dallo Stato, con l’approvazione di una Legge contro l’omobitransfobia. Infine, è necessaria una forte spinta educativa a livello sociale che porti a un cambiamento di percezione delle persone che facciano parte di una qualsiasi minoranza in ambito sessuale: da “minoritaria” a, semplicemente, differente e per questo unica.

I comportamenti sessuali
a rischio sono più
frequenti negli omosessuali?

I comportamenti sessuali: il piacere può essere un rischio. 

Nella vita quotidiana sono tanti i rischi a cui siamo esposti per la nostra salute, alcuni fanno più paura di altri quindi li teniamo maggiormente sotto controllo. Tra questi rischi, ad esempio, si può pensare a quello di incidente stradale, di incorrere in gravi malattie o di essere coinvolti in attacchi terroristici. Chiaramente, la probabilità di incorrere in tali eventi varia molto, eppure il rischio percepito non corrisponde proporzionalmente alla probabilità che si verifichi (ad eventi più probabili come un incidente stradale non si abbina una percezione più grave del rischio). Uno dei rischi più sottovalutati dall’opinione pubblica e di conseguenza dalle singole persone riguarda il comportamento sessuale. Pensando alla sessualità, si pensa spesso a qualcosa di piacevole e gratificante e poco vengono in mente a primo impatto i rischi connessi. Ciò a cui ci si riferisce quando si parla di comportamenti sessuali a rischio è proprio il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. I comportamenti sessuali a rischio sono un “tema caldo” oggi, in particolare per alcuni gruppi di persone: per gli adolescenti, alle prime prese con le tematiche del sesso e i rischi connessi e per gli uomini omosessuali. Per lunghissimo tempo, infatti, l’AIDS è stata associata quasi esclusivamente agli uomini gay e ai tossicodipendenti. In effetti il rischio di contrarre la malattia tra queste persone era nel passato molto alto (all’inizio degli anni ‘80 ci fu una vera e propria epidemia!): a causa della poca conoscenza della malattia e in particolare delle modalità di trasmissione spesso le persone non adottavano le giuste precauzioni.

 

Gli uomini gay sono più a rischio?

Nonostante le informazioni rispetto alla prevenzione siano maggiormente diffuse di un tempo, i comportamenti sessuali a rischio sono molto frequenti nella popolazione sessualmente attiva di persone omosessuali, di uomini in particolare. Come mai? Esistono diverse MST che differiscono per modalità di contagio, manifestazioni e sintomi; possono, tuttavia, essere contratte da chiunque, indipendentemente dall’identità di genere. Perché, allora, dovrebbero dipendere dall’orientamento sessuale? Il rischio di contagio è maggiore per gli uomini gay poiché, in effetti, alcuni studi hanno evidenziato che essi tendono ad avere relazioni sessuali con vari partner più frequentemente sia rispetto alle persone eterosessuali che rispetto alle donne omosessuali, per cui si espongono con maggiore probabilità al rischio di contagio. 

Per proteggersi dalle MST l’unico modo efficace è l’utilizzo di protezioni di barriera: il profilattico protegge dalla maggior parte delle infezioni ma non viene sempre utilizzato. Il motivo di ciò è relativamente comprensibile pensando a coppie stabili di uomini che, non avendo il rischio di gravidanze indesiderate e sentendosi “sicuri” del partner in salute non sentono la necessità di usare il profilattico. Pensando invece a uomini gay sessualmente attivi che non hanno una relazione stabile e che incontrano quindi diversi partner sessuali (che a loro volta possono averne avuti degli altri) le probabilità di contagio, effettivamente, sono più elevate. 

 

Conoscenza e consapevolezza: le armi migliori 

Una possibile spiegazione del fenomeno è ciò che in psicologia viene definito bias del falso consenso: si tende a sovrastimare il numero di persone che si comportano in linea al proprio comportamento per giustificare di fatto le proprie azioni e “non sentirsi in colpa”. Il meccanismo diventa quindi: “nessuno usa il preservativo, è normale ed ovvio che neanche io lo usi”. 

Un’altra possibilità che spinge a fare sesso non protetto è il gusto per il rischio, ritenuto eccitante, così come la percezione di fidarsi totalmente dell’altro. In poche parole, la pratica del barebacking, cioè praticare sesso anale senza protezione, alimenta per alcuni l’eroticismo della sessualità aumentando l’eccitazione legata all’ignoto. Il sesso non protetto in tali casi è quindi valorizzato e associato a libertà, spensieratezza e divertimento. In alcuni casi, le persone possono assumere dei farmaci prima o dopo il rapporto non protetto, come la PREP, per minimizzare il rischio di contrarre l’HIV. A complicare la situazione, c’è un ulteriore elemento: le persone sieropositive, essendo state per lunghissimo tempo stigmatizzate e discriminate, hanno spessissimo vergogna a rivelare la loro sieropositività, specie a partner sessuali occasionali che non conoscono bene e con cui non si sentono in reale intimità, quindi acconsentono a volte a rapporti non protetti pur di non “essere scoperti”. Il rischio maggiore è chiaramente quello di venire contagiati ed essere sieropositivi senza esserne a conoscenza, mettendo così a rischio la propria salute (poiché non si assumono i farmaci necessari) e l’incolumità di altre persone. Chiaramente i rischi sono sì maggiori per uomini omosessuali, ma non sono assenti per il resto delle persone: per le donne la malattia più diffusa negli ultimi 5 anni è la candida, anche loro (sia etero che omosessuali) sono esposte al rischio di HIV (che non è prerogativa degli uomini omosessuali come purtroppo ancora oggi moltissime persone pensano) così come di gonorrea, sifilide, herpes genitale etc. L’arma migliore contro i comportamenti sessuali a rischio è la conoscenza e la consapevolezza, possibile solo tramite la prevenzione e la giusta informazione, da veicolare tramite l’educazione sessuale già da giovanissimi, quando si inizia a scoprire la sessualità.

Famiglie omogenitoriali

Famiglia “tradizionale” e famiglie “moderne”? 

La famosissima serie americana “Modern Family” racconta le vicende di una famiglia che racchiude in tre nuclei familiari molte forme di quelle che oggi vengono definite, appunto, “famiglie moderne”. Jay, padre capofamiglia di mezza età si unisce nelle sue seconde nozze a una donna colombiana molto più giovane di lui, con un figlio adolescente (famiglia ricomposta e multietnica); i suoi figli avuti dal primo matrimonio (famiglia separata) hanno a loro volta le loro famiglie: Claire ha una famiglia “tradizionale”, quindi un marito e tre figli; Mitchell invece ha a sua volta una famiglia moderna, è infatti sposato con il suo compagno Cam e nel corso della serie adottano la loro bambina Lily (famiglia omogenitoriale e adottiva). La serie è notoriamente comica, è infatti una parodia di quelle che sono le così dette famiglie moderne, ma basta guardarne alcune puntate che ci si rende conto di come, le dinamiche delle famiglie moderne sono spesso sovrapponibili a quelle di una famiglia tradizionale. Inoltre, oggi, non ha più molto senso parlare di “famiglia tradizionale” e prenderla a modello, poiché questa è nettamente in minoranza numerica rispetto a tutti gli altri tipi di famiglia. Oltre le famiglie ricomposte, omogenitoriali, adottive, multietniche, non bisogna dimenticare le famiglie monogenitoriali (con un solo genitore, per scelta o per necessità, ad esempio a seguito di lutti o divorzi difficili) e le famiglie con figli nati con PMA cioè metodi di procreazione medicalmente assistita. Tutte queste famiglie sono state studiate dalla ricerca scientifica e psicologica per dimostrare che non ha senso considerare famiglie di serie A e famiglie di serie B e in particolare per evidenziare come il benessere dei figli non dipende dalla configurazione familiare ma dalla capacità del nucleo familiare di soddisfare i bisogni basilari e di assolvere efficacemente al compito genitoriale

 

Famiglie omogenitoriali: un punto di vista legale 

Per famiglie omogenitoriali, come quella di Mitch, Cam e Lily, si intende un nucleo familiare in cui i genitori siano una coppia omosessuale che si prende cura di figli sia nati da precedenti relazioni eterosessuali, sia nati da progetti di PMA o progetti adottivi a cui la coppia ricorreIn Italia, purtroppo, non esiste alcuna legge che regolamenti e tuteli la genitorialità di una coppia omosessuale. Nel nostro paese è legalmente riconosciuto come genitore solo il genitore biologico del bambino; il cosiddetto “genitore elettivo” per la legge semplicemente non esiste. Chiaramente, questa situazione porta a delle conseguenze psicologiche importantissime per le famiglie omogenitoriali presenti in Italia: la percezione di essere invisibili, discriminati e non esistere come famiglia. Inoltre, i figli di coppie omogenitoriali non vedono riconosciuti dalla legge entrambi i genitori, che ovviamente riconoscono ad un livello affettivo: questa non è una tutela legale del bambino. Infatti, un bambino che nasce e cresce in una famiglia con due genitori dello stesso sesso, ovviamente, non percepisce uno scarto, una differenza, tra il genitore biologico e il genitore elettivo, sono entrambi suoi genitori allo stesso modo. Come si può sentire un bambino che, banalmente, non può far firmare le autorizzazioni per le gite scolastiche da uno dei suoi due papà o da una delle sue due mamme (perché non è riconosciuto legalmente né come tutore né come genitore)? Inoltre, come si possono sentire i genitori? E come possono spiegare al figlio il perché della situazione e dei sentimenti che ne derivano? Il senso di frustrazione è spesso molto forte e ancor prima la paura di tutte le difficoltà e i sentimenti negativi può seriamente mettere in discussione la scelta di una coppia omosessuale di avere un figlio, scelta che per forza di cose diventa “sofferta”. Tutto ciò è profondamente ingiusto, per fortuna in Italia ci sono alcune associazioni che si battono per la tutela dei diritti di queste famiglie e di questi bambini, come ad esempio “Rete Lenford”, associazione di avvocatura per i diritti LGBT, o “Associazione famiglie arcobaleno”. Non è impossibile, infatti, far riconoscere legalmente la genitorialità anche al genitore elettivo, ma bisogna intraprendere dei procedimenti legali molto lunghi, stressanti e onerosi. 

 

Famiglie omogenitoriali: un punto di vista sociale

Come se non bastasse il peso dato dalla situazione legale che le famiglie arcobaleno devono portare, a questo si aggiunge spesso un peso sociale. Gli altri tipi di “famiglie moderne”, infatti, sono estremamente meno giudicate e discriminate dalla società rispetto alle famiglie omogenitoriali. Spesso i ricercatori hanno ipotizzato il motivo di ciò: sicuramente un grande contributo è dato dalla situazione legislativa: se qualcosa, per la legge, non esiste i cittadini inevitabilmente e inconsapevolmente si sentiranno legittimati a non rispettarla, a discriminarla quando vi si trovano di fronte. Ad esempio, lo si può notare in gesti ordinari, quotidiani, come lo stupore che i genitori dei compagni di scuola dei figli di genitori omosessuali mostrano nel sapere che quel bambino ha due papà o due mamme. Il problema è, chiaramente, culturale. Il tabù, inoltre, si autoalimenta: le coppie omosessuali quando diventano genitori sono spesso molto angosciate nel pensare alle discriminazioni in cui potrebbero incorrere i figli, quindi cercano più possibile di proteggerli. Un esempio potrebbe essere quello di ricercare degli “ambienti protetti”; come iscrivere i figli in scuole private, dove il livello socio-economico e culturale si presuppone essere più elevato. Ovviamente non è sempre così: anche nelle situazioni presunte più sicure potrebbero manifestarsi episodi di discriminazione. Proteggere i propri figli da un mondo giudicante è naturale per un genitore che non vuole che passi le stesse sofferenze che ha passato lui/lei; tuttavia, guardiamo al giorno in cui non sarà più necessario, cioè quello in cui non si verrà più discriminati per una qualsiasi diversità in ambito sessuale.

Vita di coppia omosessuale

La vita di coppia è per tutt*?

Instaurare relazioni (affettive, romantiche, sessuali, platoniche, etc.) è per molti un bisogno primario, che trova le sue basi nell’attaccamento infantile che il bambino sviluppa verso le persone che si prendono cura di lui, per ricavarne protezione e cure. Non è, però, un bisogno fondamentale per tutt*: basti pensare alle persone asessuali, che non provano attrazione erotica verso nessun genere, o quelle aromantiche, che non provano attrazione romantica. Se, nell’immaginario comune, risulta facile pensare alle relazioni eterosessuali, al contrario quelle affettive e sessuali delle persone LGBT+ risentono di radicati stereotipi. Immaginiamo, per esempio ad una coppia di uomini omosessuali: spesso si pensa che non desiderino legami duraturi, ma siano interessati solo a relazioni prevalentemente sessuali a breve termine, inclini al tradimentoSebbene ciò può essere reale per alcuni uomini omosessuali, non si può credere, come spesso si fa, che sia sempre così: questo è spesso uno stereotipo che può condizionare negativamente i loro vissuti relazionali. Infatti, non si può invalidare, come spesso si fa, l’esistenza di un’altra grande parte di persone: coppie omosessuali stabili e di lunga durata

 

Le relazioni omosessuali di lunga durata sono “atipiche”?

Le coppie omosessuali, in realtà, vivono la grande maggioranza delle dinamiche relazionali di qualunque altra. Ciò che è diverso è che fanno parte di una minoranza e purtroppo si trovano a dover fare i conti con diverse discriminazioni omofobiche e il conseguente stress: anche per questo motivo, portare avanti una relazione omosessuale può essere più complesso del previsto. I pregiudizi e gli stereotipi verso le coppie omosessuali maschili esistono, e nascono, ad esempio, da una “difficoltà” che la maggior parte delle persone riscontra nel pensare alla divisione di ruoli all’interno di una coppia omosessuale. Purtroppo la nostra società non offre dei modelli di riferimento, degli esempi di coppia omosessuale, dei ruoli di genere specifici in cui identificarsi in quanto omosessuali in coppia stabile. Sebbene i ruoli di genere e sessuali rischino spesso di diventare una gabbia relazionale, possono essere “nella giusta misura” utili a costruire un senso dell’identità individuale e relazionale solido. La mancanza di una netta divisione di ruoli e di modelli è quindi fonte di confusione e incertezza, sia per chi osserva le coppie omosessuali dall’esterno ma anche per queste stesse coppie che potrebbero identificarsi in quello che è il pregiudizio comune: “le coppie omosessuali maschili non dureranno”. Questo, insieme ad altri fattori negativi, tra cui ad esempio lo scarso supporto sociale che spesso le coppie omosessuali ricevono dalle rispettive famiglie di origine, contribuisce enormemente a creare un notevole stress.  

 

Un viaggio in canoa

Le relazioni sentimentali sono per definizione complesse da gestire: si deve continuamente cercare di capire i bisogni del partner senza però trascurare i propri; si deve gestire insieme la quotidianità in tutti i suoi aspetti, e trovare punti di accordo sui punti di divergenza (riguardo a qualunque cosa: interessi, hobby, amicizie, famiglie di origine, figli, etc.). Nel momento in cui a questa complessità (di base) si somma il minority stress, lo scarso supporto sociale a cui possono essere soggette le coppie omosessuali e le discriminazioni ancora troppo diffuse è chiaro come l’impegno da investire per “far funzionare” la relazione omosessuale sia notevolmente più alto di qualunque coppia eterosessuale. Pensando alla propria esperienza, sarà capitato a tutti in periodi particolarmente stressanti di riversare il proprio nervosismo sulle persone più vicine, spessissimo sul partner. Se la “causa” dello stress è la relazione stessa, non perché non funzioni in sé, ma perché forze esterne interferiscono al suo normale equilibrio, è chiaro come la difficoltà sia notevole. Se volessimo immaginare le relazioni come una navigazione in canoa possiamo immaginare le discriminazioni a cui sono soggette le coppie omosessuali come delle onde particolarmente insidiose: alcune coppie hanno in sé la forza per continuare a remare insieme e sincronizzati, ma in altre coppie potrebbe accadere che uno o entrambi i rematori, estenuati, decidano di abbandonare la canoa proseguendo il viaggio a nuoto, ognuno per la sua via.

 

Una prospettiva positiva sulla vita di coppia omosessuale

Per non farsi travolgere dalle onde e dalle difficoltà quotidiane, per non abbandonare la canoa, è molto importante che la coppia trovi un suo equilibrio. Come fare? Non può esistere, chiaramente, una “ricetta universale”: ogni coppia è unica nel suo genere e deve trovare in sé stessa gli elementi che permettono una stabilità. Prima di tutto, è importante riconoscere l’esistenza dei ruoli di genere e comprendere se e come stanno influenzando le nostre stesse credenze sulla durata della relazione. Inoltre, proprio come i viaggiatori in canoa, è molto importante sincronizzarsi ciascuno al ritmo dell’altro, remare più forte quando vediamo che il partner è troppo stanco e concederci un po’ di riposo quando noi ne abbiamo bisogno, forti del fatto che il nostro compagno non ci farà affogare. Sapere, infatti, che il partner è lì a sostenerci nei momenti di difficoltà è un elemento irrinunciabile per trovare quell’equilibrio e quella serenità che permette a ciascuna coppia di affrontare anche le tempeste più difficili.

Ruoli di genere:
la persona
si adatta al ruolo
o il ruolo alla persona?

Fiocco rosa o fiocco blu

Se in famiglia avete di recente accolto una nuova nascita saprete benissimo che già durante la gravidanza e in rari casi al momento della nascita (quando si vuole “la sorpresa”), la prima domanda in assoluto è: maschietto o femminuccia? La prima informazione che vogliamo riguardo a una nuova persona che viene al mondo è il suo sesso. Ci siamo mai chiesti come mai? Il sesso di una persona rientra in tutte quelle etichette che automaticamente attribuiamo alle persone per decidere “velocemente” come interfacciarci con esse, cosa aspettarci dal loro comportamento. Questa etichetta automatica non rientra però nel sesso biologico, che essendo appunto biologico è “inequivocabile” (tranne in alcuni rare eccezioni mediche, le condizioni di ermafroditismo), ma in un costrutto sociale, una convenzione che abbiamo “inventato” nel corso dei secoli e grazie alla nostra cultura: il ruolo di genere. Il ruolo di genere è, insieme al sesso biologico, l’identità di genere e l’orientamento sessuale una delle quattro componenti della sessualità, una delle parti cioè che definisce la nostra identità dal punto di vista sessuale. Come dicevamo è una convenzione sociale e infatti a culture diverse corrispondono ruoli di genere diversi, comprende infatti i comportamenti socialmente attribuiti alle persone in base al loro genere. 

 

Costruire i ruoli di genere fin dall’infanzia

I ruoli di genere, essendo convenzioni sociali, si costruiscono nella storia filogenetica, cioè la Storia (con la S maiuscola), la storia della specie e dell’evoluzione degli esseri umani sulla base anche dei cambiamenti culturali e si costruiscono nella storia ontogenetica ovvero la storia di vita e di sviluppo di ciascun singolo individuo. La cultura ci plasma con una connotazione ben precisa dei ruoli dei generi fin da piccoli. Riusciamo a pensare a un esempio? Cosa contraddistingue l’età infantile? Cosa fanno i bambini che da grandi, purtroppo, smettiamo spesso di fare? Giocano! Proprio nel gioco si ha già un esempio di netta distinzione basata sui ruoli di genere: ai maschi calcio e macchinine, alle femmine danza e bambole. Questo è solo un esempio ma potremmo farne moltissimi altri: sul piano estetico (ai maschi il blu, alle femmine il rosa), sul piano scolastico (ai maschi compiti logico-matematici, si promuove l’intelligenza pratica; alle femmine i compiti narrativi e riflessivi, si promuove l’intelligenza emotiva) sul piano “caratteriale” (alla femminilità è associata la delicatezza, alla mascolinità la forza). Non vi abbiamo ancora convinto che i ruoli di genere siano una convenzione sociale? 

Provate a osservare dei bambini abbastanza piccoli, 3-4 anni, o se ci riuscite provate a ricordare voi stessi da bambini: è molto probabile che si desiderino nella propria infanzia i giochi della sorella, della cugina, dell’amichetta di asilo ed è altrettanto probabile che se siete dei maschi i vostri genitori vi abbiano impedito l’accesso a quei giochi, sostituendoli con altri più “appropriati”. Ma appropriati per chi? Per la società, ovviamente. Ogni genitore desidera vedere il proprio figlio felice e ben inserito nel contesto sociale, per potersi inserire sono necessarie però delle regole, attenersi a degli standard. Gli standard dei ruoli di genere sono quelli più chiaramente comunicati e di conseguenza interiorizzati tra le varie convenzioni sociali. 

 

Ruolo di genere: come devi essere e come non devi essere

“Non si mangia con la bocca aperta”, “si ringrazia sempre”, “non si va in giro nudi” “non si assume un ruolo femminile se si è maschi e viceversa”. Cosa hanno in comune queste quattro affermazioni (o imperativi)? Sono convenzioni sociali, le regole che dobbiamo rispettare per vivere bene nel contesto comunemente condiviso tra gli esseri umani. Cosa hanno invece di diverso? Le prime due sono regole sociali esplicite, si insegnano in modo chiaro ai bambini, sono frasi che realmente si pronunciano; le ultime due sono invece prevalentemente implicite, i bambini le apprendono non tanto perché qualcuno le dica ma perché le interiorizzano in modo indiretto dall’ambiente. Non si vede infatti nessuno andare in giro nudo per strada così come si valuta molto negativamente una persona che assume comportamenti attinenti al ruolo di genere del sesso opposto (quante volte ancora oggi sentiamo pronunciare frasi come “non piangere come una femminuccia?”). Purtroppo, già da bambini i maschi vengono spesso mortificati e sviliti se esprimono il desiderio di assumere un ruolo femminile (ad esempio fare danza o vestirsi di rosa), così come le femmine vengono fortemente ostacolate se esprimono il desiderio di assumere un ruolo maschile (ad esempio giocare a calcio). Non si dice in modo diretto “devi attenerti al tuo ruolo di genere”, ma la comunicazione arriva comunque forte e chiara! Il ruolo di genere viene quindi interiorizzato non solo perché passa il messaggio di quanto sia negativo assumere il ruolo del genere opposto, ma anche di quanto sia positivo e di valore assumere i ruoli del proprio genere (le bambine vengono quindi elogiate quando aiutano la mamma ad apparecchiare la tavola mentre i bambini vengono elogiati quando hanno successo nel loro sport). Questa comunicazione, molto chiara, arriva non solo dai genitori, che attuano questi comportamenti per proteggere i propri figli da uno stigma sociale e da una derisione da parte dei coetanei (veicolano quindi il messaggio “in buona fede”), ma arriva anche dagli insegnati, dagli allenatori, dalle pubblicità che vedono in tv, a volte anche dai cartoni animati.  

 

Interiorizzazione: la macchia d’erba sui jeans

Il ruolo di genere viene interiorizzato fin dalla prima infanzia. Per intenderci quando parliamo di interiorizzazione è un processo che può essere paragonato alle macchie di erba fresca sui jeans: specialmente se siete donne, saprete benissimo che è davvero difficile rimuovere una macchia di erba dai jeans, potrete lavarli all’infinito, un piccolo alone resterà sempre. Così funzionano le interiorizzazioni e così funzionano i ruoli di genere: permangono ben saldi per tutta la vita dell’individuo, continuando a prescrivere “come comportarsi” praticamente in ogni ambito. Parlavamo di lavatrici e donne… questo è esattamente ciò che si intende per ruolo di genere (anche abbastanza stereotipato, a dire la verità): le donne fanno le lavatrici, gli uomini no. Le donne gestiscono la casa e si occupano dei figli; gli uomini si concentrano sul lavoro. Questa divisione dei ruoli di genere è estremamente radicata nella nostra cultura e trova le sue origini in un modello di famiglia che era prevalente negli anni ’50, in cui gli uomini lavoravano in fabbrica e le donne accudivano i bambini. Continua a persistere oggi nonostante le famiglie e le loro esigenze, così come le esigenze dei singoli, siano estremamente diverse!

 

“Bastava chiedere”

Le necessità di uomini e donne sono cambiate oggi rispetto a 70 anni fa. Eppure continua a persistere una divisione dei ruoli di genere, nell’immaginario comune, prevalentemente basata sui ruoli che erano propri degli anni ‘50. Questo ha un forte impatto nella vita delle persone: in ambito lavorativo ci si aspetta che le donne investano meno sulla carriera rispetto agli uomini e vengono considerate come meno adatte a ruoli dirigenziali e di responsabilità; in ambito sportivo si hanno classifiche, competizioni, addirittura attrezzature diverse per uomini e donne, nonostante sia stato dimostrato da vari studi come le presunte prestazioni inferiori delle donne siano dovute in misura molto maggiore a stereotipi sociali e aspettative di “fallimento” nei confronti delle donne e non invece a reali “limiti” fisici di quest’ultime (Chalabaev et al., 2013); in ambito familiare, infine si parla molto ultimamente di carico mentale o domestico a cui sono sottoposte le donne. Riguardo all’ultimo aspetto in particolare, è diventato virale il fumetto “bastava chiedere” di Emma, blogger femminista francese, trasposto anche in libro nel nostro paese, che illustra cosa sia il carico mentale delle donne: la pressione a cui ogni donna in una coppia stabile è sottoposta, il doversi fare carico appunto della gestione in toto della casa e della vita familiare e di coppia. I compiti affidati culturalmente alle donne riguardano davvero ogni singolo aspetto di vita pratica: fare le lavatrici, accompagnare i bambini, fare la spesa e cucinare, pulire casa, pagare le bollette, organizzare le vacanze e le uscite a cena con gli amici; insomma uno stress senza fine, a cui si aggiunge chiaramente lo stress lavorativo di cui spesso gli uomini si “lamentano” anche molto più delle donne. Questi compiti sono automaticamente affidati alle donne, tant’è che gli uomini quasi si stupiscono alle disperate richieste di collaborazione delle loro compagne, esordendo spesso appunto con un lapidario “bastava chiedere”. Si percepiscono come esecutori di compiti affidatigli in via temporanea dalle compagne, principi che salvano la principessa dai suoi obblighi (e spesso si aspettano anche riconoscenza e gratitudine per questo immenso sforzo). Hanno un ruolo del tutto passivo e per niente proattivo e collaborativo nella gestione domestica e questo non dipende affatto da loro, ma da ciò che la cultura e la società li ha portati a interiorizzare. Il “bastava chiedere” può essere considerato, a nostro avviso, come una forma molto sottile di sessismo benevolo, cioè quella forma di sessismo più difficile da identificare, celato, che attribuisce alle donne non apertamente caratteristiche negative di inferiorità e sottomissione ma caratteristiche di fragilità, necessità di protezione, necessità di un uomo. La donna che, infatti, “esaurita” la sua forza interna e le sue risorse energetiche chiede la collaborazione dell’uomo è percepita da questo come una creatura fragile, bisognosa del suo supporto, del suo intervento che “la salvi”. La maggior parte degli uomini, fortunatamente non tutti (attenzione sempre a non generalizzare!) percepisce i doveri domestici come relegati alla donna e il suo contributo è quindi un favore, una salvezza per la donna che, fragile, non sa gestire i suoi compiti, qualcosa che è necessario chiedere perché non è scontato. 

I ruoli di genere, in conclusione, ci possono aiutare a identificarci con un’idea condivisa, a capire cosa ci si aspetta da noi ma purtroppo sempre più di frequente nella società odierna hanno la pericolosa tendenza a diventare gabbie: devono essere flessibili e adattarsi ai cambiamenti nelle esigenze di vita di uomini e donne, alla tendenza verso una parità tra generi, adattarsi alle esigenze di famiglie (al plurale, perché sono vari i tipi) e di singoli; questa flessibilità può essere data solo da una mentalità plastica e malleabile, di gomma e non di ferro cosicché possa essere il ruolo ad adattarsi alla persona e non la persona ad adattarsi al ruolo.